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domenica 29 maggio 2016

IL SACRO NELLA LITURGIA


 
Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium afferma: “Il ritorno del sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui” (n. 89). Infatti, il concetto di sacro – per come è inteso oggi comunemente – è molto lato e giunge anzi ad essere quasi omnicomprensivo. Il binomio sacro/profano costituisce una importante categoria della filosofia della religione e di altre scienze ad essa correlate, ma rischia di non risultare una categoria adeguata per argomentare la comprensione teologica del fatto cristico e cristiano celebrato nella liturgia. L’evento di Cristo irrompe all’interno dell’orizzonte religioso umano con una carica di novità tale da sovvertirne l’ordine e di rendere superflue le antiche distinzioni e le vecchie ermeneutiche del sacro e del profano (cf. Massimo Naro, La tradizione non è un museo. Annotazioni per introdurre alla lettura di una storia della liturgia, “ho theológos” 33 [2015], pp. 91-100).

Paul Gilbert, dopo aver affermato che “la liturgia capace di rivelare la trascendenza di Dio non provoca la fuga dalla realtà presente”, intende spiegare questa affermazione affrontando il “tema difficile dell’articolazione del sacro e del santo nella celebrazione liturgica”. Tra l’altro, l’autore afferma che ciò che è sacro viene separato da ciò che è accessibile a tutti, dal fluido della vita quotidiana; il santo invece sta in mezzo alla società, nella storia. Queste due categorie però non sono vissute dappertutto nello stesso modo. La loro dialettica, infatti, conosce molte varianti  (cf. Desiderio di Dio e terra degli uomini: Premesse antropologiche per celebrare oggi. Il punto di vista di un filosofo, in F. Magnani – V. D’Adamo [edd.], Liturgia ed evangelizzazione, Rubbetino 2016, pp. 68-72).

José Luis Gutiérrez Martín, al seguito di altri teologi e liturgisti, incontra il senso cristiano del sacro nel fatto, caratteristico di ogni sacramento, di essere “luogo” dell’incontro spazio-temporale della presenza di Cristo. Il carattere sacro della liturgia presuppone non un a priori concettuale, ma una caratteristica storico-salvifica: la struttura sacramentale della storia della salvezza. La consistenza cosmica primordiale, il secolare e il profano, è assunto nel culto per essere costituito – “consacrato” – in sacramento. Il sacro e il profano partecipano di una stessa origine: il mondo creato da Dio e fatto cultura dall’uomo, e tendono ad uno stesso fine, e cioè la ri-creazione divina alla fine dei tempi (cf. J.L. Gutiérrez Martín, in Alfonso Berlanga [ed.], Adorar a Dios en la liturgia, EUNSA, Pamplona 2015, 41-63).   

Da quanto detto qui sopra in modo assai sintetico e parziale, si può intuire come la problematica del sacro nella liturgia sia affrontata in modi diversi e talvolta anche contrastanti. Secondo me, la tesi di J.L. Gutiérrez Martín è quella più convincente.

M. Augé

sabato 28 maggio 2016

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (C) – 29 Maggio 2016




   
Gn 14,18-20: Melchisedek offrì pane e vino;
 
Sal 109 (110): Tu sei sacerdote per sempre, Cristo Signore
1Cor 11,23-26: Ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso
Lc 9,11b-17: Tutti mangiarono a sazietà
 
 
La prima lettura parla di Melchisedek,  “sacerdote del Dio altissimo”, che, come segno di ospitalità e amicizia, “offrì pane e vino” e “benedisse” Abram che tornava da una vittoriosa campagna militare. La seconda lettura riporta la descrizione dell’ultima cena, in cui Gesù istituisce l’eucaristia col pane e col vino, sacrificio della nuova ed eterna alleanza. Il vangelo racconta la moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui Gesù compie gli stessi gesti con cui istituisce poi l’eucaristia. Le tre letture fanno riferimento al mistero eucaristico proposto oggi di nuovo alla nostra attenzione dopo averlo contemplato la sera del Giovedì santo con gli occhi rivolti alla Croce del Venerdì santo.
 
Possiamo soffermarci su un aspetto tipico del racconto di Paolo, cioè sul mandato di Gesù, ricorrente ben due volte in questa breve lettura: “fate questo in memoria di me”.   Fare qualcosa “in memoria” non è semplicemente ripetere e neppure ricordare qualcosa o qualcuno. Sullo sfondo del contesto del rituale della Pasqua biblica, “fare memoria” vuol dire rendere presente l’evento salvifico per prendervi parte. Nell’orazione della messa si dice che nell’eucaristia il Signore Gesù “ci ha lasciato il memoriale della sua Pasqua”. Gesù, che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre e di servizio agli uomini, cioè il vero culto e il vero sacrificio, alla fine della sua esistenza la riprende riassumendola ed esprimendola con il gesto simbolico, cultuale, del pane spezzato e condiviso e del calice del vino distribuito. Riassunta in un gesto rituale, ripetibile, celebrativo, Gesù consegna la sua vita ai discepoli perché noi tutti ne facciamo memoria nel rito (“fate questo in memoria di me”) e nella propria esistenza (“prendete e mangiate”) inseparabilmente.
 
Il sacerdozio di Cristo non è né rituale né semplicemente esteriore, bensì personale e vitale. Cristo si rende presente nell’eucaristia perché, partecipando ad essa, facciamo nostra la sua vita di oblazione e di condivisione. Celebrare l’eucaristia vuol dire riprodurre in noi i sentimenti di Cristo, di colui che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre donandosi per la nostra salvezza. Egli diventa per noi pane, perché noi impariamo a diventarlo per gli altri.





 

giovedì 26 maggio 2016

GÄNSWEIN FUORI MISURA: IL PAPA E’ UNO


 
 

di Lorenzo Bertocchi

25-05-2016

 

Quello che molti pensano in Vaticano, ma non dicono a microfoni aperti, è che le parole di Mons. Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare del Papa emerito, hanno aperto una voragine. Il riferimento è a un preciso passaggio del suo recente discorso tenuto in occasione della presentazione di un libro di don Regoli sul pontificato di Benedetto XVI.

lunedì 23 maggio 2016

Nobilis simplicitas: il paradosso del celebrare

Pier Luigi Nervi 1948
 

di LORIS DELLA PIETRA
 
L’attuale prassi celebrativa non può esimersi dal dettato basilare di SC 34: «I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni». Tutt’altro che la bandiera di ogni riduzionismo celebrativo, è un piccolo gioiello letterario: un ossimoro che, facendo leva sull’idea di “splendore”, accosta due realtà apparentemente antitetiche come la semplicità e la nobiltà per offrire un valido principio di stile liturgico.

Soprattutto in epoca controriformistica lo sviluppo rituale aveva raggiunto vistosi livelli di espressione baroccheggiante. La semplificazione dei riti sembrava la reazione di fronte ad un’impalcatura rituale contorta. Il dettato conciliare, tuttavia, non ignora la possibile deriva della liquefazione dei riti fino all’insignificanza e coniuga la necessaria semplicità, di sapore evangelico, con la nobiltà, bandendo in tal modo lo ieratismo che allontana e distanzia quanto la sciatteria che banalizza e non rimanda all’Altro. SC 34 sembra affermare che sinonimo di solennità non è trionfalismo, macchinosità e enigma, e fa comprendere che la nobiltà del rito riposa nella sua semplicità quale garanzia di trasparenza comunicativa dei significanti. Lucida è la lezione, in questo senso, di Guardini che, a proposito della forma fondamentale della Messa, egli la ravvisa proprio nel dato elementare, immediato, “semplice” e solenne, ad un tempo, della cena. Il dettato conciliare, pertanto, colloca il discorso sul terreno della competenza rituale e non sulla mera spogliazione del rito di ogni rivestimento linguistico. La semplicità del rito, infatti, è da riferirsi alla sua immediatezza, al suo carattere “ovvio”, alla sua capacità di comunicare in modo naturale attingendo al repertorio dei codici e delle esperienze umane; la sua nobiltà, tuttavia, lo preserva dall’impoverimento banalizzante che non consente a chi vi partecipa di varcare la soglia del quotidiano per affacciarsi sul mistero. A fronte di celebrazioni ampollose e lunghe la brevità sembra custodire la freschezza e l’efficacia del rito che non può disperdersi nei rivoli di un cerimonialismo fine a se stesso e logorante, ma deve incidere nei corpi, nei cuori e nelle coscienze. Per tale ragione SC chiede di evitare ogni inutile e leziosa ripetizione di parole e di gesti e di fare leva sull’innocenza del rito ben più efficace di ogni trovata accattivante, di ogni spiegazione moraleggiante o di ogni iniezione catechistica. Ciò domanda una duplice attenzione: alla formalità del rito intesa come decoro, convenzionalità, rispetto dell’indole ripetitiva, canonicità (l’obbedienza al canovaccio rubricale quale criterio di adesione al progetto rituale) e alla sua veritas per cui azioni e linguaggi sono rispettati nella loro natura e la loro messa in opera “semplice” è la migliore garanzia di simbolicità. 

Tra mera sontuosità fine a se stessa, forse nostalgica di altri climi culturali, e impazienza nei confronti delle forme, c’è tutto lo spazio per la cura della forma rituale nella quale risplende l’efficacia pastorale dell’eucaristia e di ogni sacramento (cfr. SC 49): da qui nasce la preparazione immediata di ogni celebrazione grazie alla scelta dei vari elementi rituali (cfr. OGMR 23, 24 e 352).

All’inizio del terzo millennio i Vescovi italiani denunciavano stanchezze e battute d’arresto nella prassi liturgica, sottolineavano il carattere esigente della liturgia e concludevano: «Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini». Coniugare nobiltà e semplicità, estetica e innocenza, così come profeticamente aveva intuito la costituzione conciliare, è impresa sempre più necessaria in un’epoca dove le tentazioni dell’impazienza (il rito deve subito dire qualcosa) che si spinge fino alla deritualizzazione (attribuendo al rito una sorta di insincerità di fondo) e della fuga verso “paradisi” cerimoniali di altri tempi sono quanto mai ricorrenti. Occorrono menti aperte e tatto fine per celebrare nobili simplicitate evitando le vie troppo brevi, spesso autentici vicoli ciechi, del far coincidere nobiltà e semplicità tout court con materiali, modi o forme particolari. In gioco, è sempre l’ars celebrandi, quale autentico servizio alla partecipazione del popolo di Dio al mistero.  Attraverso questa preziosa competenza, mai scontata, l’azione si rende trasparente (per questo è semplice) e si fa portatrice non di realtà umane, ma soltanto del mistero ineffabile della salvezza in Cristo Signore (per questo è nobile).

 
Fonte: Loris Della Pietra, “Ars celebrandi”: La bellezza del rito per edificare la Chiesa, in  Franco Magnani e Vincenzo D’Adamo s.i. (edd.), Liturgia ed evangelizzazione. La Chiesa evangelizza con la bellezza della liturgia (Atti del Congresso Roma 25-27 febbraio 2015), Rubbetino Editore 2016, 209-211 (le note a piè di pagina non sono riprodotte).

sabato 21 maggio 2016

Così la cremazione ha “conquistato” i cattolici


 
Una pratica in continua crescita: ne parlano un sociologo (Introvigne) uno storico (Cardini) e un teologo (Repole)

 
I cattolici e la cremazione

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21/05/2016

mauro pianta

torino

 

La Chiesa cattolica la tollera senza consigliarla, eppure sempre più italiani scelgono la cremazione. Un processo che pare inarrestabile: gli ultimi dati Istat disponibili riferiti al 2014 segnalano come questa opzione venga scelta quasi nel 20 per cento (19,71 per la precisione) dei casi di decesso e stime ufficiose parlano, per il 2015, di una percentuale che supera abbondantemente la soglia del 20. Dieci anni fa il dato si arrestava all’8 per cento.  

Nel 2012 la Cei ha pubblicato una nuova edizione del “Rito delle Esequie” in cui viene affrontato anche il tema cremazione. La Chiesa non si oppone ma continua a ritenere la sepoltura la forma più idonea a esprimere la fede nella risurrezione della carne e a favorire il ricordo e la preghiera da parte di familiari e amici. 

Quanto alle altre confessioni religiose il mondo protestante permette la cremazione, al contrario di quanto accade per i fedeli delle chiese ortodosse, dell’islam e dell’ebraismo. 

 
Ma perché questa pratica si diffonde così rapidamente a scapito dell’inumazione, la sepoltura nella terra? Risponde Giovanni Pollini, amministratore nazionale della federazione italiana per la cremazione (oltre 150mila iscritti). «I motivi sono tanti. Certo, ci sono i casi estremi di chi chiede di far disperdere i propri resti sul campo di calcio della squadra del cuore o di chi intende in questo modo marcare il proprio nichilismo. Ma nella maggior parte dei casi le persone vi ricorrono perché costa meno del funerale e della tomba, perché non vogliono disturbare i parenti dopo il trapasso o non vogliono sottrarre spazio prezioso ai vivi. Sa quante donne anziane ci dicono: “Mio figlio non mi telefona adesso che sono viva, figuriamoci se verrà a trovarmi al cimitero”. Per molti, infine, la cremazione rappresenta un modo “ecologico” per ricongiungersi alla natura…». 

 
Ecco, proprio la dimensione ecologica della cremazione, il ricongiungersi a una natura panteisticamente intesa che dunque sostituisce Dio, ha sempre sollevato qualche perplessità nel mondo cattolico. 

 
Osserva il sociologo Massimo Introvigne: «La cremazione, da gesto di rottura nei confronti del cattolicesimo, è entrata a far parte del costume anche dei cattolici. Oggi non ne farei una questione ideologica-dottrinale. Detto questo, è innegabile che certi segni, come ad esempio il non mangiar carne il venerdì o appunto l’inumazione, avevano una loro eloquenza anche sociale e sociologica. L’inumazione, in particolare, aveva una valenza educativa: essa distingueva i cristiani dai pagani, la carne messa come un seme nella terra (in-humus) destinata a rifiorire, a risorgere». 

 
Aggiunge uno storico come Franco Cardini: «La Chiesa fu contraria alla cremazione perché fin dai tempi della Rivoluzione Francese, liberi pensatori, atei, materialisti e massoni ne fecero l’espressione del proprio anticlericalismo. La pratica venne condannata formalmente dal diritto canonico: a chi ne disponeva il ricorso veniva comminata la privazione dei sacramenti e delle esequie ecclesiastiche. Occorrerà attendere il luglio del 1963, perché il papa di allora, Paolo VI, venute meno certe condizioni storiche e culturali, “sdoganasse” la pratica della cremazione purché non venisse scelta “in odio alla religione cattolica”. Una decisione che accolsi con favore perché personalmente ho avvertito sempre una certa repulsione per l’inumazione». 

 
Dal punto di vista teologico è difficile dare torto a Paolo VI. Parola di don Roberto Repole, presidente dell’Associazione Teologi Italiani «Dio non ha bisogno delle nostre ossa per resuscitarci nell’ultimo giorno. Il Signore riuscirà a ricomporre i corpi anche se qualcuno li ha bruciati o se sono stati polverizzati in qualche incidente. Chiaro che il pericolo dell’insinuarsi di una concezione panteistica nella cremazione esiste e bisogna vigilare caso per caso. La sepoltura nella terra consente un’elaborazione del lutto più graduale, un distacco meno immediato. E forse nella crescita del fenomeno della cremazione possiamo leggere un ulteriore indizio della fatica della società contemporanea nello stare di fronte alla morte». 

 
Fonte: Vatican Insider

DOMENICA DOPO PENTECOSTE: SANTISSIMA TRINITÀ ( C ) – 22 Maggio 2016


Prv 8,22-31: Così parla la Sapienza di Dio: Dall’eternità sono stata formata

Sal 8: O Signore, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!

Rm 5,1-5: L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo

Gv 16,12-15: Tutto quello che il Padre possiede è mio
 

Nel giorno di Pentecoste gli apostoli hanno ricevuto lo Spirito Santo e, fedeli al comando del Maestro, sono partiti per annunciare la buona novella e battezzare tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Le letture bibliche della solennità sono un invito a non fermarsi sulla soglia di un dogma, ma a contemplare la Trinità come un mistero di comunione, di vita e di amore. La lettura del libro dei Proverbi parla della Sapienza come la prima delle opere di Dio e suo strumento nella creazione del mondo, che la tradizione cristiana ha interpretato riferito al Verbo incarnato (cf. Gv 1). San Paolo (seconda lettura) afferma che l’uomo, giustificato per la fede, è “in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. Finalmente, il vangelo ripropone le parole di Gesù che promette lo Spirito Santo per portare a compimento la stessa opera sua in noi. Il disegno di Dio, che si è compiuto pienamente in Cristo, trova attuazione in noi per mezzo dello Spirito Santo. Attraverso Gesù Cristo e guidati dallo Spirito abbiamo accesso al Padre. Possiamo riassumere il messaggio delle tre letture dicendo che Dio crea, salva e santifica. Il mistero della Trinità non è un mistero lontano, ma il mistero della nostra vita che si svolge nel tempo verso l’eternità di Dio.

martedì 17 maggio 2016

LITURGIA ED EVANGELIZZAZIONE


Franco Magnani e Vincenzo D’Adamo s.i. (edd.), Liturgia ed evangelizzazione. La Chiesa evangelizza con la bellezza della liturgia (Atti del Congresso Roma 25-27 febbraio 2015), Rubbetino Editore 2016. 294 pp.

Elenco delle relazioni:

Prof. Don Paolo Tomatis, Da Sacrosanctum Concilium a Evangelii Gaudium. Quale liturgia per quale evangelizzazione?

Prof. Mons. Pierangelo Sequeri, La bellezza evangelizzante della liturgia.

Prof. P. Paul Gilbert s.i., Desiderio di Dio e terra degli uomini: premesse antropologiche del celebrare oggi. Il punto di vista di un filosofo.

Prof. Goffredo Boselli, Liturgia e spiritualità nell’età secolare.

Prof. Mons. Giuseppe Busani, Liturgia e gioia cristiana: un antidoto alla tristezza e all’accidia spirituale.

Prof. Don Giuseppe Bonfrate, Liturgia e primo annuncio: una liturgia ospitale anche per i più lontani?

Prof. Mons. Angelo Lameri, Evangelizzazione e sacramenti: il punto a oltre 40 anni di distanza dal documento C.E.I.

Prof. P. Keith Pecklers s.i., Liturgia e città: nuove esigenze e attenzioni.

S.E. Mons. Vittorio F. Viola o.f.m., Liturgia e attenzione ai poveri: la “mondanità spirituale” anche nella liturgia?

Prof. P. Germano Marani s.i., Liturgia in una società multietnica: sfide e discernimenti necessari.

Prof. Mons. Dario Edoardo Viganò, Azione rituale e codici comunicativi.

Dott.ssa Simona Borello, L’omelia, come atto di evangelizzazione: strumenti formativi.

Prof. P. Jean-Paul Hernandez s.i., Quale arte oggi, nella bellezza della liturgia, per quale evangelizzazione?

Prof.ssa Sr. Antonella Meneghetti f.m.a., Kerygma, iniziazione cristiana e formazione liturgica.

Prof. P. Cesare Giraudo s.i., La mistagogia oggi: educare il desiderio, consolidare la fede.

Prof. P. Nicolas Steeves s.i., Celebrare con il “Corpo” ecclesiale, sensibile, eucaristico: l’impatto teologico dell’immaginazione nella liturgia.

Prof. Don Loris Della Pietra, Ars celebrandi: la bellezza del rito per edificare la Chiesa.

Prof. P. Eduardo Lopez Tello Garcia o.s.b. – Arch. Gabriele Orlando, Spazio architettonico e iconografia: l’eloquenza del visibile nella liturgia.

Prof. Giorgio Monari – Prof. Maurizio Gagliardi, Musica e canto nell’azione celebrativa: arte, partecipazione, annuncio.

Prof. Don Pietro Angelo Muroni, Liturgia delle Ore e celebrazioni sacramentali.

Prof. Don Luigi Gerardi, Chiesa orante, benedicente ed evangelizzante, nella famiglia e nelle attuali situazioni di vita.

Prof. Mons. Giovanni Di Napoli, La pietà popolare: realtà da evangelizzare o luogo evangelizzatore.

Prof. Mons. Fabio Trudu, Nuove comunità, movimenti ecclesiali e comunione liturgica.

Prof. Stefano Parenti, Comunità cristiane nel territorio, ecumenismo e liturgia.

Prof. Don Juan Rego Barcena, Una bellezza che illude? La tensione tra l’esperienza rituale e la vita ordinaria come sfida per la Nuova Evangelizzazione.

domenica 15 maggio 2016

IL “NON ANCORA” E LA LITURGIA


 
“Siamo tutti legati ad una logica soprattutto pedagogica, per cui il ‘non ancora’ [della salvezza] è visto nel suo lato soprattutto negativo, come qualcosa da colmare. Questa logica pedagogica, tuttavia, ha una dimensione che ha resistito al suo influsso, anche se spesso a fatica: la liturgia. Nella logica liturgica, infatti, il ‘non ancora’ è la promessa premessa che apre all’invocazione; non è qualcosa immediatamente da riempire con un contenuto dottrinale, ma è piuttosto un tempo che siamo chiamati ad abitare assumendo la nostra parzialità, stando con Gesù anche se non capiamo tutto subito, esattamente come i discepoli del vangelo. La sfida enorme è di tramutare questo principio in una pratica in grado di comprendere la parzialità senza subordinarla gerarchicamente alla pienezza che non c’è ancora…”

(Stella Morra, Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale, EDB 2015, p. 119)

sabato 14 maggio 2016

DOMENICA DI PENTECOSTE (C) – 15 Maggio 2016


 
Messa del giorno

At 2,1-11: Tutti furono colmati di Spirito Santo

Sal 103 (104):  Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra

Rm 8,8-17: Avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi

Gv 14,15-16.23b-26: Lo Spirito Santo vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto

           
La Pentecoste celebra la presenza dello Spirito che rinnova mondo e uomini. E’ la Pasqua comunicata, senza misura, alla Chiesa.

Le tre letture bibliche offrono una ricca riflessione sull’azione dello Spirito Santo nella vita cristiana. La prima lettura descrive l’evento della Pentecoste, in cui la Chiesa nascente riceve il dono dello Spirito. L’intreccio dei simboli assume il ruolo di presentare allusivamente lo Spirito e la sua opera. Il vento è improvviso e inarrestabile, il fuoco illumina e riscalda, la parola dà senso e comunica in tutte le lingue. Il dono delle lingue, detto “glossolalia”, significa il dono dei carismi diversi che lo Spirito elargisce; doni diversi, ma donati dallo stesso Spirito, che è sorgente di unità nella diversità. Ecco quindi che Dio irrompe nella nostra vita per ricrearla e unificarla. Ce lo ricorda san Paolo nella seconda lettura: la carne divide; lo Spirito unifica.

Il brano evangelico continua il discorso sugli effetti della presenza dello Spirito nel cuore dei credenti. Lo Spirito è con noi per sempre. E’ la promessa di Gesù: “il Padre vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”. Cristo è stato il primo Paraclito o Consolatore - Protettore dei discepoli; lo Spirito Santo è il secondo Consolatore che accompagna la comunità dei discepoli di Gesù nel loro cammino fino all’incontro definitivo con il Signore.

Possiamo sintetizzare con le parole di Atenagora cosa sarebbe il cristianesimo senza o con lo Spirito: “…senza di lui, Dio è lontano, il Cristo è nel passato, il vangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità dominio, la missione propaganda, il culto evocazione e l’agire cristiano una morale da schiavi. Ma in lui il cosmo è innalzato e geme nella gestazione del Regno, l’uomo è in lotta contro la carne, il Cristo risorto è presente, il vangelo è potenza di vita, la Chiesa significa comunione trinitaria, l’autorità è al servizio liberatore, la missione una Pentecoste, la liturgia memoriale e anticipazione, l’agire umano è deificato”.

L’eucaristia è il “cibo spirituale che ci nutre per la vita eterna”. In questo cibo è “sempre operante in noi la potenza dello Spirito” (orazione dopo la comunione). Anzi, la comunione eucaristica fa sì che lo Spirito “abiti in noi” (cf. 1Cor 3,16) e che “il nostro corpo sia tempio dello Spirito Santo” (cf. 1Cor 6,19).         

giovedì 12 maggio 2016

Il Papa: le antiche diaconesse, una possibilità da studiare


Francesco ne ha parlato ricevendo in udienza le superiore religiose: è d’accordo a promuovere uno studio sulle usanze delle prime comunità. Una proposta in questo senso fu avanzata da Martini negli anni Novanta. A Padova già in atto da tempo un esperimento in questo senso

 Il Papa: le diaconesse della Chiesa primitiva, una possibilità per l’oggi
 che
12/05/2016

andrea tornielli

Città del Vaticano

Papa Francesco ha detto di voler riprendere lo studio sul diaconato femminile nella Chiesa primitiva. Ne ha parlato durante l’udienza all’Unione internazionale Superiore generali (Uisg), ricevute in Vaticano. Il tema non è nuovo ed è stato riproposto anche in tempi relativamente recenti. Dopo il netto pronunciamento di Giovanni Paolo II, che in risposta alle aperture anglicane con la lettera «Ordinatio sacerdotalis» (1994) negava categoricamente la possibilità del sacerdozio femminile nella Chiesa cattolica, era stato il cardinale Carlo Maria Martini, a parlare della possibilità di studiare l’istituzione del diaconato per le donne, non menzionata nel documento papale. L’allora arcivescovo di Milano disse: «Nella storia della Chiesa ci sono state le diaconesse, possiamo pensare a questa possibilità». Alcuni storici della Chiesa antica fecero notare che le donne erano ammesse a un particolare servizio diaconale della carità che si differenzia dal diaconato odierno inteso come primo grado del sacerdozio.  

 
Nel corso della sessione di domande e risposte avvenuta nell’incontro, è stato chiesto tra l’altro al Papa perché la Chiesa esclude le donne dal servire come diaconi. Le religiose hanno detto al Pontefice che le donne servivano come diaconi nella Chiesa primitiva e hanno chiesto: «Perché non costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?». Il Pontefice ha risposto che una volta aveva parlato della materia qualche anno fa con un «buon, saggio professore», che aveva studiato l’uso delle donne diacono nei primi secoli della Chiesa. Francesco aveva spiegato che non gli era ancora chiaro quale ruolo avessero tali diaconi. «Che cos’erano questi diaconi femminili?», ha ricordato il Papa di avere chiesto al professore. «Avevano l’ordinazione o no?». «Era un po’ oscuro», aveva detto. «Qual era il ruolo della diaconessa in quel tempo?». «Costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?», ha quindi chiesto Bergoglio ad alta voce. «Credo di sì. Sarebbe bene per la Chiesa chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò per fare qualcosa del genere». 

«Accetto», ha detto il Papa successivamente. «Mi sembra utile avere una commissione che lo chiarisca bene».  

 
Secondo una tradizione antichissima, il diacono in realtà veniva ordinato «non al sacerdozio, ma al ministero». Esistono alcune testimonianze della storia sulla presenza di diaconesse, sia nella Chiesa occidentale che orientale. Le testimonianze fanno riferimento anche a riti liturgici di ordinazione. Il punto da approfondire è che tipo di figure ministeriali fossero, quali erano i ruoli che svolgevano all’interno della comunità. La posizione del magistero, che considera il diaconato come il primo grado del ministero ordinato, lo riserva soltanto agli uomini esattamente come avviene per gli altri due gradi, il presbiterato e l’episcopato.  

 
Con l’annuncio di essere d’accordo a istituire una commissione di studio sul diaconato femminile nella Chiesa primitiva, Francesco vuole verificare se e come attualizzare quella forma di servizio, ritenendo che diaconesse permanenti possano rappresentare «una possibilità per oggi». Agli inizi del cristianesimo è esistita una diaconia femminile (della quale parla anche san Paolo) ed è documentato che nel III secolo in Siria esistevano delle diaconesse che aiutavano il sacerdote nel battezzare le donne. Un ruolo attestato anche nelle Costituzioni apostoliche del IV secolo, che parlano di un apposito rito di consacrazione, distinto però da quello dei diaconi maschi.  
 

Forme di servizio diaconale femminile sono state peraltro già da tempo istituzionalizzate, ad esempio negli anni scorsi nella diocesi di Padova, per iniziativa dell’allora vescovo Antonio Mattiazzo. Si tratta di donne che, pur senza vestire l’abito religioso, hanno emesso i voti di obbedienza, povertà e castità. E sono state così consacrate come «collaboratrici apostoliche diocesane». Ruolo e compiti di questa nuova forma di servizio erano state a suo tempo così spiegate dalla diocesi veneta: «È una forma di diaconia femminile ispirata al Vangelo. Le collaboratrici apostoliche assumono la diaconia apostolica come progetto di vita accolto, approvato e orientato dal vescovo». Tra i compiti a cui sono chiamate le «diaconesse» c’è l’annuncio della Parola, l’educazione alla fede, le opere di carità al servizio dei poveri, la distribuzione della comunione, l’animazione della liturgia, o la gestione di strutture come scuole e istituti.  

 
Papa Francesco ha parlato più volte della necessità per la Chiesa cattolica di valorizzare il ruolo della donna. Ma ha sempre evitato di presentare questa valorizzazione come una forma di «clericalizzazione» delle donne. «È una battuta uscita non so da dove - aveva detto nel dicembre 2013, nell’intervista con La Stampa a proposito di una boutade sulle donne cardinale - Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non “clericalizzate”. Chi pensa alle donne cardinale soffre un po’ di clericalismo». 

 
Nel settembre 2001, l’allora Prefetto della dottrina della fede Joseph Ratzinger, insieme ai «colleghi» porporati Medina Estevez (Prefetto del Culto divino) e Castrillón Hoyos (Prefetto Clero) aveva firmato una breve lettera, approvata da Papa Wojtyla, nella quale si affermava che «non è lecito porre in atto iniziative che in qualche modo mirino a preparare candidate all’ordine diaconale». Il testo si riferiva all’ordine diaconale come sacramento e primo grado del sacerdozio.  

 
Nuovi studi sul diaconato femminile nella Chiesa dei primi secoli, sui suoi compiti e ruoli confrontati con quello maschile, potrebbero schiudere nuove possibilità e nuove forme di servizio consacrato al di fuori degli ordini religiosi femminili già esistenti. 

 
«La Chiesa ha bisogno che le donne entrino nel processo decisionale. Anche che possano guidare un ufficio in Vaticano», ha inoltre affermato Papa Francesco rispondendo, una alla volta a sei domande che gli sono state rivolte da alcune religiose in occasione del suo incontro con 900 suore di tutto il mondo. In «Aula Nervi», ha spiegato che «la Chiesa deve coinvolgere consacrate e laiche nella consultazione, ma anche nelle decisioni perché ha bisogno del loro punto di vista. E questo crescente ruolo delle donne nella Chiesa non è femminismo ma la corresponsabilità è un diritto di tutti i battezzati: maschi e femmine». Bergoglio ha anche sottolineato che «troppe donne consacrate sono “donnette” piuttosto che persone coinvolte nel ministero del servizio. La vita consacrata - ha aggiunto - è un cammino di povertà, non un suicidio».
 
 
Fonte: Vatican Insider

martedì 10 maggio 2016

ORIENTAMENTO… QUALE?


 
Questa breve riflessione non intende negare una tradizione che ha valutato l’orientamento della preghiera verso l’Oriente, anche se credo che oggi per la sensibilità dell’uomo postmoderno in un ambiente globalizzato, questa tradizione ha effetti più teorici che effettivi.

Nella liturgia romana troviamo anche una sottolineatura dell’orientamento verso l’alto. Ripercorriamo l’Ordinario della Messa: cantiamo “Gloria a Dio nell’alto dei cieli”; nel Credo affermiamo che Gesù risorto “è salito al cielo”; all’inizio del prefazio siamo invitati a innalzare i nostri cuori in alto (“in alto i nostri cuori”); e alla fine del prefazio, cantiamo “Osanna nell’alto dei cieli”; la prima preghiera eucaristica nel momento del racconto dell’istituzione dice che “Gesù prese il pane nelle sue mani santi e venerabili, e alzando gli occhi al cielo a te Dio Padre…”, e la rubrica del Messale dice che anche il sacerdote che pronuncia queste parole deve “alzare gli occhi”.

Vediamo che la maggior parte di questi testi parlano dell’alto dei cieli in cui c’è Dio, come preghiamo nel Padrenostro: “Padre nostro, che sei nei cieli”. Il cielo “è una manifestazione diretta della trascendenza, della potenza, dell’eternità, della sacralità, irraggiungibili per tutti gli abitanti della terra. Il solo fatto di essere elevato, di trovarsi in alto, equivale a essere potente (nel senso religioso della parola) e a essere come tale saturo di sacralità…” (J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, segni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri [BUR saggi], Rizzoli 201512, p. 263).

Sono numerosi i testi eucologici del Messale Romano che parlano di questa dimensione simbolica. Nella IV domenica di Avvento, l’antifona d’introito canta il Rorate: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto…” E l’introito della II domenica dopo il Natale, dice: “il Verbo onnipotente è sceso dal cielo, dal trono regale” (… de caelis a regalibus sedibus venit). Si potrebbe continuare studiando la terminologia “celeste” che nella terza edizione del Messale Romano è abbondantissima: caeli, caelestis, ecc. appaiono ben 443 volte.

La liturgia ha una spiccata dimensione escatologica. La celebriamo fino a quando il Signore Gesù ritornerà. Il mistero dell’Ascensione che abbiamo celebrato domenica scorsa, ci invita ad attendere questo ritorno dall’alto: “…mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi”. E due uomini in bianchi vesti dissero ai discepoli: “… Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,9.11). Quando celebriamo l’Eucaristia, la celebriamo in attesa del ritorno del Signore: “finché egli venga” (1 Cor11,26) dall’alto dei cieli.

M. Augé

domenica 8 maggio 2016

LA PRESENZA DI CRISTO NELLA LITURGIA


Juan José Silvestre e Juan Rego (edd.), Il mistero di Cristo reso presente nella liturgia, Edizioni Santa Croce srl, Roma 2016. 477 pp.

Il volume raccoglie i contributi presentati al XVI Convegno della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce, svoltosi nei giorni 3 e 4 marzo 2015. Il convegno, intitolato Il mistero di Cristo, reso presente nella liturgia, ha offerto una riflessione sulla liturgia a partire dal mistero di Cristo, suo centro e radice. Tale mistero va inteso in tutte le sfumature, con cui lo presenta la Scrittura. Punto di partenza è una visione complessiva che, avendo come fulcro il mistero pasquale, abbraccia tutto il “mistero” di Cristo: la sua Persona radicata nella storia di un Popolo, la sua Pasqua, l’incorporazione della sua Chiesa mediante il dono dello Spirito, l’attesa della consumazione escatologica.

Il volume contiene il testo delle 6 relazioni e delle 18 comunicazioni. In seguito diamo il titolo solo delle relazioni:

Antonio Pitta, Tra rivelazione e nascondimento. Il Mistero nel Nuovo Testamento.

Antonio Miralles, Mysterium e sacramentum nelle fonti liturgiche.

José Luis Gutiérrez Martín, Semel immolatus… et tamen quotidie immolatur. L’attualizzazione del Mistero nella celebrazione del culto. Una metafora della teologia liturgica del XX secolo.

Angelo Lameri, La Liturgia delle Ore, celebrazione del Mistero Pasquale.

Pierangelo Sequeri, Dal mistero pasquale alla musica per la liturgia.

David W. Fagerberg, The Christian Life as Marked by the Celebrated Mystery.

sabato 7 maggio 2016

ASCENSIONE DEL SIGNORE (C) – 8 MAGGIO 2016


At 1,1-11: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?
Sal 46 (47): Ascende il Signore tra canti di gioia

Eb 9,24-28; 10,19-23: Abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio
Lc 24,46-53: Mentre li benediceva, si staccò da loro

 
Con la sua Ascensione, Cristo è stabilito re dei secoli, Signore dell’universo, “sacerdote grande sopra la casa di Dio”.
Il racconto dell’evento dell’Ascensione del Signore è affidato alla prima lettura, costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. Tuttavia la preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo vivendo dopo l’evento dell’Ascensione del Signore e in attesa di ricongiungerci con lui alla destra del Padre: “viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria” (orazione colletta).
 
 
La solennità dell’Ascensione è certamente un invito a guardare in alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo lo ha reso accessibile; ma non per questo deve far dimenticare il cammino che dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi.
 
 
Gesù congedandosi dei discepoli, li promette il dono dello Spirito e li invia ad annunciare la buona novella a tutte le genti. Non è indifferente che il breve brano del vangelo d’oggi sottolinei che dopo l’Ascensione del Signore, i discepoli “tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. E’ il ritorno al quotidiano sorretti dalla speranza, che trova il suo fondamento nella natura umana di Cristo che è stata glorificata.
 
 
In sintesi, possiamo dire che il mistero dell’Ascensione consiste nell’indicare il recupero da parte di Gesù della sua dimensione divina che gli è propria. Ma consiste altresì nel rivelare l’azione che, adesso, Gesù al cospetto di Dio suo Padre svolge in nostro favore mediante lo Spirito Santo che ci ha donato.

martedì 3 maggio 2016

LA NUBE DI DIO


Antonio Rubino, La nube di Dio. La Chiesa evangelizza con la bellezza dell’Anno Liturgico (Prefazione e Postfazione di Vittorino Grossi), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016. 173 pp.

La nube di Dio che avvolge tutti: il titolo di questa pubblicazione è preso dalle parole di Papa Bergoglio, pronunciate in una omelia a Santa Marta. Esse esprimono pienamente il grande mistero che ci dona la liturgia della Chiesa.

Nella sacra scrittura la nube è sempre associata all’apparizione o alla presenza di Dio. Conviene ricordare l’episodio del popolo d’israele quando, accampato di fronte al monte Sinai, sente Dio che lo definisce “regno di sacerdoti, nazione santa” (Es 19,6), e lo percepisce mentre rivela se stesso in una densa nube: “Ecco, io vengo verso di te in una densa nube” (Es 19,9).

La nube, quindi, rappresenta una presenza sicura, uno stare con, come si può costatare anche nell’episodio della trasfigurazione (cf. Mt 17,1-8; Mc 9,2-8); Lc 9,28-36). L’uomo entrando nella nube, cioè credendo, non rinuncia alla propria razionalità, ma la trascende.

La liturgia ha la sua ragion d’essere non nell’uomo, ma in Dio; attraverso il mistero della liturgia, infatti, si attua l’opera della nostra redenzione (cf. SC 2). Per questa ragione è possibile definirla, perché ultimo momento per via sacramentale della storia della salvezza, la continuazione del tempo di Cristo-sposo nel tempo della Chiesa-sposa.

Romano Guardini sostiene, come conseguenza di questa caratteristica peculiare della liturgia, che in essa l’uomo non guarda a sé, bensì a Dio, verso di lui è diretto lo sguardo.

La preghiera del prefazio, nel tempo feriale ordinario, mette bene in risalto questo dinamismo quando afferma: “Tu non hai bisogno della nostra lode ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva”.

La liturgia comunica in modo efficace l’azione salvifica di Dio ma è, anche, la forma attraverso la quale la creatura esprime la risposta umana di lode, di ringraziamento e di preghiera al Signore

[…]

(Dall’Introduzione all’opera: pp. 17-18).

Il volumetto è diviso in tre parti: La Liturgia: la nube di Dio avvolge tutti – Tempo di Dio e tempo dell’uomo – Teologia dell’Anno liturgico.

  

 

domenica 1 maggio 2016

Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?


 



“…Una immagine, quella che vi proponiamo, inserita dall’Arcidiocesi nel proprio sito, che nel giro di poche ore ha fatto il giro dell’intera Sicilia, con unanimi apprezzamenti circa lo spirito di mons. Lorefice che, nel corso della giornata in cui ha ricevuto gli sportivi, si è voluto dilettare con questa pratica”.

E’ il commento del sito Giornale Ibleo:



Così si è esibito in Cattedrale a Palermo Mons. Corrado Lorefice il 27 aprile scorso nella celebrazione del Giubileo degli sportivi.

Compete al vescovo regolare, nella sua diocesi, la celebrazione dei sacramenti e della liturgia in genere (cf. LG 26). Quindi ogni abuso, ogni stranezza compiuta dal vescovo nella celebrazione liturgica è particolarmente riprovevole. Inoltre il modo “abusivo” di agire del vescovo potrebbe indurre altri a fare altrettanto. Le lodi del sito Giornale Ibleo al gesto di Mons. Lorefice .dimostrano quanto può influire nella comprensione “sbagliata” della liturgia il comportamento del vescovo.  

Post scriptum:
Ho chiesto chiarimenti  ad amici di Palermo. Mi hanno detto che il vescovo ha celebrato la messa per i disabili, una messa davvero esemplare con una esemplare omelia, e al termine i disabili gli hanno donato una bicicletta ed egli ha percorso con essa il presbiterio. Le cose sono andate quindi in modo diverso di quanto hanno detto alcuni blog, me compreso. In ogni modo, però, non cancello quanto ho scritto sopra affinché tutti sappiano cosa penso degli abusi nella celebrazione liturgica. M. Augé