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lunedì 23 maggio 2016

Nobilis simplicitas: il paradosso del celebrare

Pier Luigi Nervi 1948
 

di LORIS DELLA PIETRA
 
L’attuale prassi celebrativa non può esimersi dal dettato basilare di SC 34: «I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni». Tutt’altro che la bandiera di ogni riduzionismo celebrativo, è un piccolo gioiello letterario: un ossimoro che, facendo leva sull’idea di “splendore”, accosta due realtà apparentemente antitetiche come la semplicità e la nobiltà per offrire un valido principio di stile liturgico.

Soprattutto in epoca controriformistica lo sviluppo rituale aveva raggiunto vistosi livelli di espressione baroccheggiante. La semplificazione dei riti sembrava la reazione di fronte ad un’impalcatura rituale contorta. Il dettato conciliare, tuttavia, non ignora la possibile deriva della liquefazione dei riti fino all’insignificanza e coniuga la necessaria semplicità, di sapore evangelico, con la nobiltà, bandendo in tal modo lo ieratismo che allontana e distanzia quanto la sciatteria che banalizza e non rimanda all’Altro. SC 34 sembra affermare che sinonimo di solennità non è trionfalismo, macchinosità e enigma, e fa comprendere che la nobiltà del rito riposa nella sua semplicità quale garanzia di trasparenza comunicativa dei significanti. Lucida è la lezione, in questo senso, di Guardini che, a proposito della forma fondamentale della Messa, egli la ravvisa proprio nel dato elementare, immediato, “semplice” e solenne, ad un tempo, della cena. Il dettato conciliare, pertanto, colloca il discorso sul terreno della competenza rituale e non sulla mera spogliazione del rito di ogni rivestimento linguistico. La semplicità del rito, infatti, è da riferirsi alla sua immediatezza, al suo carattere “ovvio”, alla sua capacità di comunicare in modo naturale attingendo al repertorio dei codici e delle esperienze umane; la sua nobiltà, tuttavia, lo preserva dall’impoverimento banalizzante che non consente a chi vi partecipa di varcare la soglia del quotidiano per affacciarsi sul mistero. A fronte di celebrazioni ampollose e lunghe la brevità sembra custodire la freschezza e l’efficacia del rito che non può disperdersi nei rivoli di un cerimonialismo fine a se stesso e logorante, ma deve incidere nei corpi, nei cuori e nelle coscienze. Per tale ragione SC chiede di evitare ogni inutile e leziosa ripetizione di parole e di gesti e di fare leva sull’innocenza del rito ben più efficace di ogni trovata accattivante, di ogni spiegazione moraleggiante o di ogni iniezione catechistica. Ciò domanda una duplice attenzione: alla formalità del rito intesa come decoro, convenzionalità, rispetto dell’indole ripetitiva, canonicità (l’obbedienza al canovaccio rubricale quale criterio di adesione al progetto rituale) e alla sua veritas per cui azioni e linguaggi sono rispettati nella loro natura e la loro messa in opera “semplice” è la migliore garanzia di simbolicità. 

Tra mera sontuosità fine a se stessa, forse nostalgica di altri climi culturali, e impazienza nei confronti delle forme, c’è tutto lo spazio per la cura della forma rituale nella quale risplende l’efficacia pastorale dell’eucaristia e di ogni sacramento (cfr. SC 49): da qui nasce la preparazione immediata di ogni celebrazione grazie alla scelta dei vari elementi rituali (cfr. OGMR 23, 24 e 352).

All’inizio del terzo millennio i Vescovi italiani denunciavano stanchezze e battute d’arresto nella prassi liturgica, sottolineavano il carattere esigente della liturgia e concludevano: «Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini». Coniugare nobiltà e semplicità, estetica e innocenza, così come profeticamente aveva intuito la costituzione conciliare, è impresa sempre più necessaria in un’epoca dove le tentazioni dell’impazienza (il rito deve subito dire qualcosa) che si spinge fino alla deritualizzazione (attribuendo al rito una sorta di insincerità di fondo) e della fuga verso “paradisi” cerimoniali di altri tempi sono quanto mai ricorrenti. Occorrono menti aperte e tatto fine per celebrare nobili simplicitate evitando le vie troppo brevi, spesso autentici vicoli ciechi, del far coincidere nobiltà e semplicità tout court con materiali, modi o forme particolari. In gioco, è sempre l’ars celebrandi, quale autentico servizio alla partecipazione del popolo di Dio al mistero.  Attraverso questa preziosa competenza, mai scontata, l’azione si rende trasparente (per questo è semplice) e si fa portatrice non di realtà umane, ma soltanto del mistero ineffabile della salvezza in Cristo Signore (per questo è nobile).

 
Fonte: Loris Della Pietra, “Ars celebrandi”: La bellezza del rito per edificare la Chiesa, in  Franco Magnani e Vincenzo D’Adamo s.i. (edd.), Liturgia ed evangelizzazione. La Chiesa evangelizza con la bellezza della liturgia (Atti del Congresso Roma 25-27 febbraio 2015), Rubbetino Editore 2016, 209-211 (le note a piè di pagina non sono riprodotte).