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domenica 27 novembre 2016

EUCARISTIA MATRIMONIO FAMIGLIA


 

Centro di Azione Liturgica (ed.), Eucaristia, matrimonio, famiglia (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – Sectio pastoralis 36), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2016. 182 pp.

 

Il volume raccoglie le relazioni della 66a Settimana Liturgica Nazionale, celebrata a Bari dal 27 al 30 agosto 2015.

 

1. Franco Miano – Giuseppina De Simone, La famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo.

2. Don Giorgio Mazzanti, “Senza la domenica non possiamo vivere”. L’incontro nuziale e fecondo di Cristo con la Chiesa.

3. Don Silvano Sirboni, “Senza la domenica non possiamo vivere”. Dai segni della liturgia nuziale alle dinamiche della vita matrimoniale.

4. S. E. Mons. Bruno Forte, Ogni celebrazione liturgica è una festa nuziale. La dimensione eucaristica della vita degli sposi e della famiglia.

5. Enzo Bianchi, L’Eucaristia della famiglia nel giorno del Signore.

6. Don Giulio Meiattini osb, P. Mariano Magrassi: un’eredità alla prova del tempo.

7. Lucia Miglionico – Giuseppe Petracca Ciavarella, Domenica, famiglia e riposo. Dalla Mensa Eucaristica alla mensa domestica.

8. Giulia e Tommaso Cioncolini, Dalla Mensa Eucaristica alla mensa domestica.

9. Luigi Passarello – Filippa Mancuso, Domenica, famiglia e riposo: dalla mensa eucaristica alla mensa domestica.

10. Don Paolo Gentili, Il tempo della prova.

11. Don Franco Magnani, “Rese grazie”: il tempo del matrimonio.

12. Don Mario Castellano, Celebrare l’amore. Gesti, Parole, Segni nella Liturgia.

 

sabato 26 novembre 2016

DOMENICA I DI AVVENTO (A)


 
DOMENICA I DI AVVENTO (A)
 
Andiamo con gioia incontro al Signore
 
Is 2,1-5; Sal 121 (122); Rm 13,11-14; Mt 24,37-44
 
Il Sal 121 è uno dei più celebri e più appassionati canti delle ascensioni a Gerusalemme. E’ un saluto rivolto dai pellegrini alla città santa, e riflette l’emozione che provavano i pellegrini ogni volta che giungevano in vista della città, sede del tempio, luogo sacro della presenza di Dio. In questa domenica I di Avvento, ricordiamo che noi tutti siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste e ne esprimiamo la gioia quando diciamo col salmista: “Quale gioia, quando mi dissero: «andremo alla casa del Signore»”. All’inizio dell’Anno liturgico siamo invitati a riprendere con rinnovato coraggio il nostro cammino verso la patria del cielo, nel gioioso contesto di comunione e di pace di cui parla il salmo, ma anche in attesa vigilante del Signore che viene.
 
L’Avvento ricorda le due venute del Signore e le mette in intimo rapporto, la prima nel mistero della incarnazione e la seconda alla fine dei tempi: “Al suo primo avvento nell’umiltà della nostra natura umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della gloria e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa” (prefazio dell’Avvento I). Questa I domenica è tutta quanta incentrata sulla venuta del Signore alla fine dei tempi, alla quale siamo invitati a prepararci. Quando facciamo delle scelte nella vita di ogni giorno, le facciamo avendo davanti l’immagine di un futuro che intendiamo raggiungere: economico, sociale, culturale, ecc. Oggi siamo invitati a farle guardando anche al futuro di Dio, di un Dio che è venuto, viene e verrà per noi.
 
Il brano evangelico raccoglie alcune parole di Gesù in cui egli afferma che l’incontro con lui alla fine del nostro pellegrinaggio terreno sarà improvviso e inatteso. Il testo evangelico è tutto focalizzato sull’incertezza del quando, che viene ripetuta tre volte: “vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà […] se il padrone di casa sapesse a quale ora […] nell’ora che non immaginate…”. Siamo invitati quindi a risvegliare in noi uno spirito vigilante. Non si tratta di una vigilanza passiva e inoperosa, ma attiva e dinamica; dobbiamo andare incontro al Cristo che viene e dobbiamo farlo “con le buone opere” (colletta). Tutta la vita deve essere una preparazione prolungata e fedele ad accogliere Cristo che viene. Un messaggio simile lo troviamo nella prima lettura, in cui il profeta ci esorta a percorrere il nostro cammino “nella luce del Signore”. Nella lettura apostolica, san Paolo, riprendendo il simbolismo della luce e, dopo aver ricordato che siamo nella notte in attesa dell’alba luminosa dell’avvento di Cristo, ci invita a svegliarci perché il giorno della salvezza è vicino. In questo contesto, l’Apostolo aggiunge che dobbiamo gettare via le “opere delle tenebre” e comportarci “come in pieno giorno”. Il futuro verso il quale camminiamo deve innestare nel presente la tensione per l’impegno nei valori che, vissuti nel presente, conducono al possesso di quelli futuri e definitivi. Ogni attimo della nostra vita è impastato di eternità. Perdere la memoria del futuro equivale ad appiattire il presente. Il cristiano essendo un uomo di memoria, è un uomo di attesa. La nostra esistenza di credenti è destinata a svolgersi, come è naturale, in seno alla storia concreta degli uomini ma allo stesso tempo è chiamata a far lievitare la storia con la novità della speranza, cioè con la fede nel progetto di salvezza che Dio compie nella storia.
 
La partecipazione all’eucaristia è “pegno di salvezza eterna” (orazione sulle offerte), ci sostiene nel nostro cammino e ci guida ai beni eterni (cf orazione dopo la comunione).
 

giovedì 24 novembre 2016

AD PRISTINAM SANCTORUM PATRUM NORMAM


 

Quaderno N°3995 del 10//12/2016 - (Civ. Catt. IV 417-520 )

Articolo

 

LA RIFORMA LITURGICA A 50 ANNI DAL VATICANO II. «PARLARE DI "RIFORMA DELLA RIFORMA" è UN ERRORE»
Cesare Giraudo S.I.

Rinunciando ad assumere il messale di Pio V come punto di partenza, è possibile vedere nel messale di Paolo VI la realizzazione del sogno di Pio V, quello cioè di riportare il messale ad pristinam sanctorum Patrum normam. È dalla tradizione dei Padri che occorre procedere per una corretta ermeneutica della continuità. «Parlare di “riforma della riforma” è un errore», ha detto di recente papa Francesco. Considerando dunque impossibile aderire all’appello a riorientare gli altari verso l’abside, come qualcuno ha suggerito, nell’articolo vengono sottolineate due urgenze: il recupero della dimensione sacrale della liturgia e l’impegno per la formazione liturgica. La riforma liturgica è da curare meglio, ma non certo da sopprimere.

© Civiltà Cattolica pag.432-445

domenica 20 novembre 2016

I MIRACOLI EUCARISTICI


 

I miracoli eucaristici nel mondo (Collana Il Figlio), Shalom 2016. 363 pp.

 

Prefazione

 

Alcuni anni fa pubblicai una ricerca sui miracoli eucaristici, ma, con mia grande sorpresa, ricevetti una lettera che contestava la documentazione raccolta, perché sosteneva che i “sanguinamenti” eucaristici erano frutto di un’epoca ingenua e facilmente portata a costruire prodigi.

Soffrii non poco per questa affermazione. E il motivo era semplice: le cose non stavano così; i fatti parlono inequivocabilmente.

 

Padre Pio, uomo del ventesimo secolo, non è stato un vivente miracolo eucaristico? La sua straordinaria esistenza è tutta legata all’Altare, alla Messa, al Sangue.

E chi può affermare che Padre Pio sia stato soltanto un’invenzione di ingenui e di visionari del ventesimo secolo?

 

Teresa Neumann, morta nel 1962 e quindi in pieno secolo ventesimo, si è nutrita per tredici anni... soltanto di Eucaristia. Commissioni di medici si sono alternato accanto a lei ed hanno vigilato giorno e notte: alla fine, hanno dovuto riconoscere il fatto umanamente inspiegabile

Anche questo è un miracolo eucaristico: chi può negarlo?

 

Marthe Robin, morta nel 1981, per cinquantatré anni si è nutrita esclusivamente di Eucaristia e, talvolta, tra lo stupore dei testimoni, ella non potendo più deglutire, aspirava l’Eucaristia in un gesto di profondo amore verso Gesù presente nel Santissimo Sacramento.

Jean Guitton, celeberrimo pensatore, riguardo a Marthe Robin scrisse: “La donna che mi appresto a ritrarre era una contadina della campagna francese. Una donna che forse fu l’essere più trano, straordinario e sconcertante della nostra epoca. Dal primo incontro con lei ebbi il presentimento che un giorno non avrei potuto fare a meno di parlare di lei”. Perché? Per il semplice fatto che la sua vita è un clamoroso prodigio... legato alla Santissima Eucaristia.

 

Queste pagine, con molta sobrietà, descrivono e lasciano parlare tanti miracoli eucaristici: vale la pena di leggerle... per ascoltare il grido di amore di Dio che risuona in ogni celebrazione eucaristica.

Oggi... come ieri!

                                                                           + Angelo Comastri
                                                        Vicario del Papa per lo Stato della Città del Vaticano

venerdì 18 novembre 2016

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 20 Novembre 2016 - CRISTO RE DELL'UNIVERSO

 

2Sam 5,1-3: Tu pascerai il mio popolo Israele

Sal 121 (122): Andremo con gioia alla casa del Signore

Col 1,12-20: Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa

Lc 23,35-43: Costui è il re d’Israele

 

Il Sal 121 è un saluto gioioso e fiducioso rivolto alla città santa dai pellegrini giunti alle porte di Gerusalemme. Per ogni israelita, Gerusalemme e il suo tempio, luogo sacro della presenza di Dio, rappresentavano l’incontro e la straordinaria comunione che si era stabilita tra Israele e il suo Signore. Riappropriandoci di questo salmo, i cristiani esprimiamo la volontà di percorrere il nostro cammino verso la Gerusalemme celeste.

 

L’anno liturgico si chiude con questa domenica, dedicata a Cristo re dell’universo, chiave di lettura del mondo e della storia. In concreto, la solennità odierna propone la regalità di Cristo nella sua luce biblica e non in quella sociologica. Bisogna quindi evitare le ambiguità che hanno talvolta caratterizzato questa festa in un passato non lontano. Il dominio regale di Cristo si esercita sull’universo e sugli individui piuttosto che sulle società. Infatti, le letture bibliche insistono sull’aspetto escatologico, e cioè ultraterreno e spirituale della regalità di Cristo. “Il Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 677).

 

La prima lettura narra l’unzione di Davide consacrato a re d’Israele. La figura di Davide prefigura quella di Cristo, l’Unto per eccellenza (cf. I Vespri, ant. Al Magn.). La dimensione universale e cosmica della regalità di Cristo è celebrata in modo particolare nell’inno della Lettera ai Colossesi che ci viene proposto come seconda lettura: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui [Cristo] e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”. Tra l’inno paolino e la descrizione della crocifissione di Gesù corre un abisso, a prima vista inconciliabile. Infatti, il brano del vangelo ci ricorda che Gesù esercita il suo dominio non tramite la forza, ma nella debolezza della croce. Il potere che Cristo rivendica sull’uomo non è di mondana potenza, ma proposta di valori liberanti, ai quali chiede un’adesione libera e personale promettendo a colui che li accoglie, come al buon ladrone del vangelo, la partecipazione al suo regno: “oggi sarai con me nel paradiso”.

 

Il regno di Cristo si stabilisce in “ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato” (colletta). Se vogliamo quindi che Cristo re eserciti il suo potere sul mondo, dobbiamo anzitutto far sì che il suo regno si stabilisca dentro di noi, nelle profondità del nostro essere, da dove prende origine la nostra espressione, la nostra parola, le nostre opere e il nostro dinamismo interiore. Cristo regna nei nostri cuori quando “viviamo secondo la verità nella carità e cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di Cristo” (Lodi mattutine, lettura breve: Ef 4,15).

 

La celebrazione eucaristica anticipa in noi i doni del regno di Dio. Già nell’Antico Testamento la comunione tra Dio egli uomini, che caratterizzava l’avvento definitivo del Messia e del suo regno, viene rappresentata con l’immagine di un banchetto sacro al quale il Dio di Israele inviterà tutti i popoli.

lunedì 14 novembre 2016

Sant’Alberto Magno, Vescovo e Dottore della Chiesa (15 novembre)


 

Alberto nacque a Baviera nel 1206. A 16 anni si recò a Bologna, dove diventerà domenicano. E’ stato filosofo e teologo, assiduo ricercatore del rapporto tra scienza e fede. Insegnò in diversi centri della Germania, e infine a Parigi, dove ebbe come discepolo san Tommaso d’Aquino. Ordinato vescovo di Ratisbona (1260), fu promotore di pace nella vita civica e sociale, ma dopo due anni diede le dimissioni e ritornò ai suoi prediletti studi. Morì a Colonia il 15 novembre del 1280. Sia nel Messale Romano 1962 che nel Messale Romano 2002, è celebrato nel suo dies natalis.

 

Colletta del MR 1962:

Deus, qui beatum Albertum, Pontificem tuum atque Doctorem, in humana sapientia divinae fidei subicienda magnum effecisti: da nobis, quaesumus; ita eius magisterii inhaerere vestigiis, ut luce perfecta fruamur in caelis.

 

Colletta del MR 2002:

Deus, qui beatum Albertum episcopum in humana sapientia cum divina fide componenda magnum effecisti, da nobis, quaesumus, ita eius magisterii inhaerere doctrinis, ut per scientiarum progressus ad profundiorem tui cognitionem et amorem perveniamus.

 

“O Dio, che hai reso grande il vescovo sant’Alberto nel ricercare l’armonia tra la sapienza umana e la verità rivelata, fa’ che illuminati dal suo insegnamento, attraverso il progresso scientifico possiamo crescere nella tua conoscenza e nel tuo amore”

 

Notiamo che nella colletta del MR 2002 si invoca Dio che ha reso grande sant’Alberto nel ricercare l’armonia tra la sapienza umana e la verità rivelata (…humana sapientia cum divina fide componenda…). Invece, il testo del MR 1962 invoca Dio che ha reso grande sant’Alberto nel “sottomettere” la sapienza umana alla verità rivelata (…humana sapientia divinae fidei subicienda…).  E’ evidente l’influsso che ha avuto il Vaticano II nella riforma del testo: la Costituzione Gaudium et Spes riconosce “la legittima autonomia della cultura e specialmente delle scienze” (n. 59); non si tratta quindi di contrapporre o di sottomettere,  ma di armonizzare

domenica 13 novembre 2016

IL VALORE DEL GESTO


 

Frequentemente il gesto è considerato come la traduzione corporea di un’intenzione o un ragionamento che lo precede: “Voglio manifestarti il mio bene, potrei dirtelo, scriverlo, ma decido di raffigurare questo mio pensiero spiegandolo con una carezza”. Niente di tutto questo. I gesti non sono spiegazioni di pensieri, ma pensieri e desideri nella loro più originaria forma corporea; non sono espressioni al seguito di una precedente riflessione, ma prime intenzioni del nostro corpo, aventi proprietà e sfumature che nessuna parola o nessuno scritto riusciranno a rendere. “Abbracciare” è ben più di dire o scrivere “ti voglio bene”. Uno schiaffo sul volto è decisamente più pesante di offernsivi insulti scritti o verbali. Nei gesti troviamo non solo il corpo che ingenuamente si esprime, appunto, grazie al “corporaggio”, poiché essi sono il risultato dell’educazione (“saluta!”, “non mettere le dita nel naso!”, “non gridare!”) e quindi della trasmissione della tradizione gestuale di una famiglia, come del resto sono influenzati dal costume tipico di una società.

 

Fonte: G. C. Pagazzi, Questo è il mio corpo. La grazia del Signore Gesù, EDB 2016, 61.

 

venerdì 11 novembre 2016

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Novembre 2016


 

 

Ml 3,19-20a: Sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia

Sal 97 (98): Il Signore giudicherà il mondo con giustizia

2Ts 3,7-12: Ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità

Lc 21,5-19: Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita

 

Il Sal 97 è un cantico gioioso al Signore che viene come re e giudice a giudicare il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine. Sono invitati a partecipare a questo inno esultante tutti gli abitanti del mondo e l’intero cosmo: i mari, i fiumi, le montagne. La Chiesa dà al salmo un significato messianico e lo interpreta come profezia della vittoria finale di Dio sulle potenze malefiche e predizione della salvezza che ne conseguirà per tutti i popoli. Il ritornello, ispirandosi a Ap 22,20, ci invita a chiedere che questo intervento salvifico e definitivo del Signore si compia ovunque e per tutti gli uomini. Alla luce di questo salmo,  la fine del mondo e il giudizio universale, temi che ci propone oggi la parola di Dio, sono da considerarsi come un giorno di festa in cui Dio viene a stabilire definitivamente la giustizia.

 

Questo “giorno del Signore”, così lo chiama la Bibbia, è descritto dalla prima lettura come “un giorno rovente come un forno”, in cui Dio annienterà i superbi e gli ingiusti, ma salverà coloro che hanno timore del suo nome, e cioè quelli che servono Dio con fedeltà. Per questi “sorgerà raggi benefici il sole di giustizia” (cf anche I Vespri, ant. al Magn). Il vangelo raccoglie le parole di Gesù sugli ultimi tempi, di cui questi ne rivela l’incertezza dell’ora. Di qui l’invito del canto al vangelo: “Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (cf Lc 21,28). In attesa del compimento della vicenda terrena, ci viene dato come codice di comportamento l’esortazione di san Paolo ai cristiani di Tessalonica: in attesa del trionfo della giustizia, in attesa che il male sia vinto, l’Apostolo ci invita a vivere la nostra vita nella pace lavorando, cercando di non essere di peso agli altri, guadagnandoci così il nostro destino. Questa esortazione combacia con l’affermazione di Gesù che conclude il discorso sulla fine dei tempi con queste parole: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (II Vespri, ant. al Magn.).

 

La perseveranza è frutto della grazia, è frutto dello Spirito, ma è anche risposta coerente e quotidiana della nostra volontà al dono di Dio. La vita cristiana non è passiva attesa di doni che piovono dal cielo; è invece ricerca appassionata, impegno generoso che si traduce in un concreto sforzo per testimoniare la giustizia e la salvezza di Dio. In questo mondo siamo di passaggio. Tante volte invece le realtà terrene ci si offrono in tutta la loro forza seducente, in modo che non è facile mantenersene liberi. Il nostro sguardo deve rivolgersi verso quei beni che ci procurano “felicità piena e duratura” (colletta). A questo proposito, sant’Agostino dice che il cristiano deve “servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo” (Ufficio delle letture, 2a lettura). Dio ha progetti di pace su di noi, non progetti di sventura (cf ant. d’ingresso, Ger 29,11). Pertanto, il linguaggio immaginoso che usa la Scrittura per descrivere il giorno finale non deve incutere paura. Non serve vivere in attesa ansiosa e oziosa del futuro. L’attesa cristiana si chiama speranza, la quale non è né ansiosa né oziosa ma attiva. La vita è amministrazione di un dono che ci è stato affidato, quindi è responsabilità. Bisogna prendere sul serio il tempo presente. Siamo chiamati non all’evasione dal mondo, ma a costruire qui e ora le premesse che preparano l’avvento definitivo del regno di Dio.

 

Il Signore che verrà alla fine dei tempi come giudice è realmente presente nell’eucaristia sotto gli umili segni sacramentali del pane e del vino. Nell’eucaristia quindi è racchiusa e già in atto la beata speranza che alimenta l’attesa e il desiderio della Chiesa e di ogni credente nel ritorno del Signore. Perciò gridiamo ai quattro venti con gli antichi cristiani: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).

domenica 6 novembre 2016

LITURGIA DELLE ORE. RIFORMA INCOMPIUTA?


 

Elena Massimi (ed.), Liturgia delle Ore. Una riforma incompiuta (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 179), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2016. 280 pp.

 

Il volume contiene gli Atti della XLIII Settimana di studio dell’Associazione Professori di Liturgia (Palermo, 31 agosto – 4 settembre 2015).

 

1. Pietro Sorci, Forme di una Liturgia delle Ore popolare nella storia.

2. Elena Massimi, La riforma della Liturgia delle Ore: scelte e nodi irrisolti.

3. Ancrea Grillo, Spazio-tempo della Liturgia delle Ore nella cultura tardo-moderna. La faticosa riscoperta della dimensione comunitaria della fede.

4. Dom Jerónimo Pereira Silva, Una “preghiera per il tempo presente”. Esperienze di inculturazione e adattamento della Liturgia delle Ore.

5. Anna Morena Balducci, “Tempo è di unire le voci e lasciare che la grazia canti”. Il canto nella Liturgia delle Ore.

6. Loris della Pietra, La Liturgia delle Ore come gesto.

7. Daniela Musumeci, Le emozioni nella preghiera della Chiesa.

8. Roberto Vignolo, “Dinanzi al tuo volto...” (Sal 21,7). Quale esperienza e quale immagine di Dio nel Salterio?

sabato 5 novembre 2016

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 6 Novembre 2016


 

 

2Mac 7,1-2.9-14: Il re dell’universo ci risusciterà a vita nuova ed eterna

Sal 16 (17): Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto

2Ts 2,16-3,5: Il Signore ci ha dato una consolazione eterna

Lc 20,27-38: Dio non è dei morti, ma dei viventi

 

Per noi cristiani, dal testo del Sal 16 emergono due certezze: Dio ci difende, anzi ci protegge all’ombra delle sue ali; superati i disagi del nostro pellegrinaggio, incontreremo il volto radioso di Dio e ci sazieremo della sua presenza. Quest’ultima verità è quella che il ritornello del salmo responsoriale mette in evidenza. 

 

La prima lettura, tratta dal secondo libro dei Maccabei, ci riporta alcuni tratti dell’epico racconto del martirio dei “sette fratelli”, detti appunto Maccabei; sette fratelli che, con la loro madre, vanno con fierezza incontro al martirio, per non rinnegare la propria fede, nella certezza che Dio li “risusciterà a vita nuova ed eterna”. E’ la prima volta che nella tradizione biblica dell’Antico Testamento appare in maniera esplicita la credenza nella “risurrezione dei morti”. Nel brano evangelico vediamo che Gesù in polemica con i sadducei, che non credevano alla risurrezione, afferma, facendo riferimento a Mosè, che “Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. Il fatto che Dio si presenta a Mosè nel roveto ardente come il “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” (Es 3,6), vuol dire che nel momento stesso che egli parla egli si sente in rapporto “vitale” coi Patriarchi morti ormai da centinaia di anni. La seconda lettura contempla il disegno di Dio su di noi: all’origine della nostra vita c’è l’amore con cui Dio gratuitamente ci ha amato; al suo traguardo c’è il compimento della speranza che Dio ha posto nei nostri cuori; nel momento presente c’è il conforto con cui egli ci rende stabili “in ogni opera e parola di bene”. Il futuro appartiene alla vita, perché Dio è fedele ai doni fatti e ci libera da tutte le potenze del male e della morte. La vita oltre la vita esiste!

 

In queste ultime domeniche dell’anno liturgico siamo invitati a dare uno sguardo fiducioso alle ultime e misteriose realtà che ci attendono alla fine della nostra esistenza terrena. Andiamo incontro ad una vita nuova e definitiva, che sarà il superamento di tutto ciò che oggi ci limita, ci condiziona e ci opprime. Questa vita è una vita trasformata per “la forza dello Spirito Santo” (orazione dopo la comunione), ed è partecipazione alla vita stessa di Cristo, “il quale è morto per noi, perché viviamo insieme con lui” (Ufficio delle letture, responsorio). Tra la situazione attuale in cui ci troviamo e lo stato di risorti che attendiamo si compia in noi, c’è continuità ma anche radicale diversità. Ora siamo in cammino verso i beni futuri (cf colletta). La nostra vita quindi non è allo sbaraglio, ma è orientata verso un traguardo ben definito.

 

L’eucaristia è nutrimento del nostro pellegrinaggio e pegno della vita futura. Gesù lo ha detto chiaramente nel discorso pronunciato nella sinagoga di Cafàrnao: “Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,58).

 

giovedì 3 novembre 2016

Comunione in bocca o sulla mano


 

Il tema della comunione in bocca o sulla mano continua ad essere un “tormentone” nei blog e in altri mezzi simili di comunicazione. Se ne è occupato più volte l’agenzia Zenit, anche recentemente; il blog Messainlatino non si risparmia nelle critiche alla comunione sulla mano; Don Giorgio Maffei parla addirittura del “sacrilegio della comunione sulla mano” (http://www.preghiereagesuemaria.it/sala/storia%20della%20comunione%20sulla%20mano.htm); altri considerano la comunione sulla mano un abuso.
 
Credo che tutti sanno quale sia la normativa liturgica in materia, che permette le due modalità. Più volte mi sono occupato di questo argomento, soprattutto nello studio pubblicato anni fa nella rivista Ecclesia Orans (“A proposito della comunione sulla mano”, in Ecclesia Orans 8 [1991] 293-304). Riprendo, in seguito, un post dal blog Controapologetica (3.11.2016) che, nonostante qualche imprecisione e ambiguità, ha una certa originalità (http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=Comunione%20in%20bocca%20o%20nella%20mano)

 
 

Tra le questioni minori legate alla tematica del passaggio delle sacre specie nel tubo digerente del fedele, ve n’è una che riguarda la pratica liturgico-pastorale del sacramento. È la questione della liceità – o  quanto meno opportunità - di ricevere l’ostia nella mano anziché direttamente in bocca (si parla anche, rispettivamente, di comunione “sulla mano” o “sulla lingua”).

 

Si tratta di una disputa antichissima, divenuta però di grande attualità nel periodo postconciliare, quando si sono fatte insistenti le pressioni per la “liberalizzazione” della comunione sulla lingua. Nonostante la dichiarata ostilità di Paolo VI alla nuova prassi (v. l’istruzione Memoriale Domini, del 1969), la CEI nel 1989 ha ufficialmente stabilito che “accanto all’uso della Comunione sulla lingua, la Chiesa permette di dare l’Eucaristia deponendola sulle mani dei fedeli”.

 

La controversia ha risvolti dogmatici, e ha praticamente spaccato in due la Chiesa. Ciascuno dei due partiti avversi elenca puntigliosamente, a sostegno della propria tesi, tutta una serie di argomentazioni di ordine storico, teologico, pastorale, e perfino igienico (“la comunione in bocca crea il pericolo che il sacerdote tocchi la lingua del fedele e contamini così le ostie distribuite successivamente”; “no, se questo dovesse capitare il sacerdote può provvedere rapidamente a pulire la mano; l’Aids non si trasmette attraverso la saliva; molto più contaminante è il contatto della mano con maniglie, banconote, mani di altre persone, ecc.”).

Noi non entriamo nel merito della disputa. Ci limitiamo a mettere in evidenza un paio di aspetti della questione che hanno attinenza coi temi che abbiamo trattato.

 

Il primo riguarda il problema della metabolizzazione delle specie eucaristiche. È singolare infatti che a sostegno della comunione sulla lingua si giunga a ricordare che già all’inizio del II secolo “si proibì ai laici persino di toccare i vasi sacri; per cui è lecito supporre che si vietasse ai medesimi di toccare le sacre specie” (Zoffoli, § 751).

Ora, un’argomentazione del genere appare basata sull’ingenuo presupposto che il contatto con la lingua, a differenza di quello con le mani, non costituisca un “toccare”. 

Sicché, mentre le mani sono viste come qualcosa che compromette la purezza dell’ostia, si immagina che quest’ultima, una volta delicatamente posata sulla lingua del fedele, raggiunga direttamente il suo cuore integra e “intatta”, ossia “non toccata”. Potremmo dire che è come se il sacerdote collocasse l’ostia nel cuore stesso del comunicando, beatamente ignaro di tutte le trasformazioni degradanti che essa inizia a subire già al primo contatto con la saliva.

 

Come si vede, si tratta della stessa ingenuità che abbiamo rilevato nella bolla “Transiturus”. Una volta posta nella bocca, l’ostia viene considerata ormai “giunta a destinazione”, e quindi definitivamente al riparo da ogni contatto che possa comprometterne la purezza.

In realtà, come sappiamo, è Gesù stesso che ci ammonisce che le cose stanno in ben altro modo: è proprio dal momento dell’introduzione in bocca che iniziano i contatti più impuri, destinati a trasformare la candida particola in un grumo di nauseabonda poltiglia. 

 

La seconda considerazione che intendiamo fare tocca il problema del rapporto che la Chiesa intende mantenere con i fedeli nella gestione del sacramento eucaristico. La comunione sulla lingua, infatti, richiamando l’immagine dell’uccellino che nel nido riceve l’imbeccata dalla madre, diviene straordinario emblema di tale rapporto.

La situazione ricorda da vicino la proibizione di interpretare in modo autonomo la Scrittura: la parola di Dio deve giungere al fedele opportunamente preparata, cucinata (si vorrebbe dire “predigerita”) dalla Chiesa madre e maestra, così come il boccone che talora la mamma provvede a sminuzzare e ammorbidire coi denti per il suo bebè.

 

Come si è detto, è come se il sacerdote, ponendo l’ostia consacrata sulla lingua del fedele, la collocasse direttamente nel suo cuore. Il ruolo del comunicando viene ridotto al minimo: tutto si riduce all’atto di protendere la lingua, giusto come i nidiaci aprono i loro minuscoli becchi.

Ne risulta proporzionalmente enfatizzato il ruolo di chi impartisce la comunione, che si tratti del celebrante stesso o di qualcuno da lui autorizzato.

 

Altro dettaglio importante: la comunione sulla lingua comporta di regola l’inginocchiarsi di chi la riceve. Il gesto viene normalmente interpretato come manifestazione di riverenza verso il divino che si cela nell’ostia, ma finisce inevitabilmente per essere anche atto d’ossequio verso la figura di colui che ne è tramite, e quindi verso la Chiesa.

In sostanza, costituisce una riaffermazione della gerarchia, detentrice del potere sacramentale. L’aspetto di “comunione” dell’eucaristia ne risulta ulteriormente impoverito.

 

In un’intervista rilasciata nel 2008 a “Radici  cristiane”, mons. Albert Malcolm Ranjith Patabendige, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, esprimeva il proprio rammarico per il fatto che la prassi della comunione sulla mano, autorizzata dalla Chiesa obtorto collo in via sperimentale, sta guadagnando terreno in tutti i continenti; e ciò benché il Pontefice mostri chiaramente col proprio esempio quale sia la procedura più grata a Dio, distribuendo sempre l’ostia sulla lingua a fedeli inginocchiati davanti a lui.

 

Noi ci permettiamo di fare una considerazione, invitando anche in questo caso ad ascoltare le parole di Gesù stesso, troppo spesso dimenticate quando fa comodo.

Nel vangelo di Marco (14, 22) si legge: “E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: "Prendete, questo è il mio corpo"”.

E nel vangelo di Matteo (26, 26): “Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: "Prendete, mangiate: questo è il mio corpo"”.

 

Gesù, dunque, dopo aver spezzato il pane, lo dà agli apostoli, sottolineando il gesto con un inequivocabile “prendete”. Gli apostoli quindi non possono aver fatto altro che prenderlo ciascuno nella propria mano.

Nessuno, pensiamo, oserà immaginare un Gesù che imbocca personalmente i dodici ponendogli i pezzi di pane sulla lingua. E nulla ci autorizza a pensare che essi abbiano ricevuto il corpo di Cristo stando inginocchiati.

La comunione sulla mano ha quindi un indiscutibile fondamento evangelico.

 

Il Redentore evidentemente non temeva la contaminazione del pane al contatto delle mani. E questo benché i discepoli non brillassero certo per scrupoli di purificazione igienico-rituale in vista del pasto, come avevano denunciato scribi e farisei nell’episodio di Mt 15, 11 ss. da noi ampiamente commentato.

Sappiamo del resto come reagì Gesù a tali rimproveri: si limitò ad escludere drasticamente ogni possibilità di contaminazione del cuore per via orale.

 

Vediamo così che anche il tema delle modalità di somministrazione dell’eucaristia ci porta a considerare quanto abbiamo detto circa una delle più gravi aporie presenti nella dogmatica del sacramento. 

mercoledì 2 novembre 2016

Lund, la comunione e la donna Vescovo. Questione ecumenica e questione cattolica



di ANDREA GRILLO

Come è evidente, il gesto storico che papa Francesco ha compiuto il giorno 31 è molto più avanti delle parole con cui tutti noi possiamo commentarlo. La fraternità e la sororità che ha saputo esprimere... altro »

martedì 1 novembre 2016

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI – 2 Novembre 2016


 
  

Gb 19,1.23-27a: Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! e i miei occhi lo contempleranno

Sal 26: Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi

Rm 5,5-11: La speranza non delude

Gv 6,37-40: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me

 

Il salmo responsoriale è una preghiera in cui si intrecciano sentimenti di fiducia in Dio e di lamento nel momento della prova. La supplica salmica termina con una esaltazione della fede, vista come aiuto nei momenti difficili, e con un incoraggiamento a sperare nel Signore che l’orante rivolge a se stesso: “si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore”. L’intero formulario della Messa è improntato alla “beata speranza che insieme ai nostri fratelli defunti risorgeremo in Cristo a vita nuova” (colletta). La speranza cristiana è essenzialmente speranza di fronte alla morte.

 

Nella prima lettura, Giobbe, a metà del suo tempestoso contendere con Dio, intravede un barlume di speranza. Egli, intuendo che il Dio vivente è della sua parte, fa un atto di fede nella risurrezione: “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! […] e i miei occhi lo contempleranno”. Chi sia il “redentore” di cui parla Giobbe, lo illustrano le altre due letture. Nel secondo brano biblico, san Paolo afferma che “la speranza non delude” Infatti se “quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”, può perderci ora che siamo stati da lui “riconciliati” con Dio?. Il brano evangelico conferma che chi crede nel Figlio di Dio ha la vita eterna, ed egli lo risusciterà nell’ultimo giorno. Su questa linea, i cinque prefazi dei defunti esaltano la speranza nella vita futura fondata sulla risurrezione di Cristo: “In Cristo tuo Figlio, nostro salvatore rifulge a noi la speranza della beata risurrezione” (I); “Egli prendendo su di sé la nostra morte ci ha liberati dalla morte e sacrificando la sua vita ci ha aperto il passaggio alla vita immortale” (II); “Egli è la salvezza del mondo, la vita senza fine e la risurrezione dei morti” (III); “per la morte redentrice del tuo Figlio, la tua potenza ci risveglia alla gloria della risurrezione” (IV); “Cristo con la sua vittoria ci redime dalla morte e ci richiama con sé a nuova vita” (V). La morte acquista tutto il suo significato solo se riportata alla dimensione e illuminazione cristologica.

 

Siamo abituati a ricordare in questo mese autunnale di novembre i nostri cari defunti. Nonostante la morte e al di là di essa, noi speriamo che la vicenda storica dell’uomo su questa terra avrà una conclusione positiva. Ci attende non il vuoto, non il nulla, ma l’incontro definitivo con il nostro Redentore. Per il cristiano la morte è una nuova nascita: “come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita” (antifona d’inizio; cf. 1 Cor 15,22). Con la morte cadono tutti i limiti della nostra condizione terrena per essere liberi pienamente e definitivamente nella totalità della nostra esperienza, portando con noi la nostra storia che in qualche modo ritroveremo in Dio. Con la preghiera del salmo responsoriale, abbiamo esclamato: “Contemplerò la bontà del Signore nella terra dei viventi ”; “dimora di luce e di pace”, dice l’orazione dopo la comunione”. Sono immagini con cui la Bibbia esprime la beatitudine eterna a cui siamo tutti chiamati.
 

Il mistero della morte, che si è compiuto nei nostri congiunti, ci invita ad approfondire il senso della vita da cui la morte ricava significato. Tutti abbiamo bisogno di un qualche punto di riferimento, nessuno può vivere senza ideali, senza valori di riferimento. Alla luce di questi ideali cerchiamo di dare un senso alla vita. Per il cristiano, Cristo e il suo vangelo rappresentano l’ideale a cui far riferimento. La vita presente prepara quella futura e definitiva. Nell’aldilà ritroveremo ciò che abbiamo seminato qui. Il pensiero della morte è salutare quando ci incoraggia ad una vita vissuta consapevolmente, quando ci aiuta a non disperdere i doni di Dio che sono in noi.