Translate

domenica 31 dicembre 2017

NELLA RIFORMA LITURGICA, L’ULTIMA ISTANZA NON È STATA LA PAROLA DEI PERITI






Benedetto XVI ha scritto la prefazione al volume che esce oggi in Germania per celebrare i 70 anni del cardinale Gerhard Ludwig Müller, exprefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il papa emerito, a un certo punto, afferma :

“Nei tempi confusi, nei quali stiamo vivendo, l’insieme di competenza teologica scientifica e saggezza di colui che deve prendere la decisione finale mi sembra molto importante. Penso per esempio che nella Riforma liturgica le cose sarebbero andate a finire diversamente se la parola dei periti non fosse stata l’ultima istanza, ma se, oltre a questo, avesse giudicato una saggezza in grado di riconoscere i limiti dell’approccio di un ‘semplice’ studioso” (clicca qui).

Non c’è dubbio che l’osservazione critica dii Benedetto XVI riguarda anzitutto la riforma della Messa e, in particolare l’Ordinario della Messa. Certamente, il papa emerito non entra nei dettagli; si tratta solo di un esempio che egli cita in un contesto più generale. Mi permetto però, con rispetto alla venerata figura di Benedetto XVI e per evitare che i soliti detrattori della riforma liturgica rialzino la testa, di ricordare che nella suddetta riforma l’ultima istanza non è stata la parola dei periti, ma l’intervento del saggio Beato Paolo VI.

Il testo dell’Ordo Missae, nell’ultima tappa della sua redazione fu presentato a Paolo VI, il quale dopo aver letto e riletto le pagine dello schema, su 104 numeri, 34 furono da lui postillati e rimandati agli esperti con la preghiera di tenerne conto. Quando, poi, alcuni mesi dopo, ricevette il nuovo testo elaborato dagli esperti,  papa Montini lo approvò con un autografo che dice: “Mercoledì 6 novembre 1968 – ore 19-20.30. Abbiamo letto nuovamente, col Rev. P. Annibale Bugnini, il nuovo ‘Ordo Missae’ compilato dal ‘Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia’, in seguito alle osservazioni fatte da noi, dalla Curia Romana, dalla S. Congregazione dei Riti, dai partecipanti alla XI sessione plenaria del ‘Consilium' stesso, e da altri ecclesiastici e fedeli; e dopo attenta considerazione delle varie modifiche proposte, di cui molte sono state accettate, abbiamo dato al nuovo ‘Ordo Missae’ la nostra approvazione, in Domino. Paulus PP. VI” (il testo si trova in Annibale Bugnini, La riforma liturgica. Nuova edizione, C.L.V. 1997, p. 380).  

MARIA SS. MADRE DI DIO – 1 Gennaio 2018



Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2, 16-21

Il messaggio della liturgia del primo giorno dell’anno è molteplice. Le letture bibliche e gli altri testi della messa tratteggiano la molteplicità dei temi proposti alla nostra attenzione: la maternità divina di Maria, l’ottava del Natale, la circoncisione di Gesù con l’imposizione del nome, la ricorrenza del primo giorno dell’anno, la giornata della pace. Trattandosi della solennità della Madre di Dio, noi qui ci soffermiamo su questo mistero mariano.

“Madre di Dio” è il titolo che le Chiese d’oriente e d’occidente danno unanimemente a Maria, quando la ricordano nella preghiera eucaristica e nella celebrazione della nascita del Signore, quando si rivolgono a lei invocandone l’intercessione. Per aver generato colui che si è fatto nostro fratello, Maria è anche nostra madre. La preghiera dopo la comunione la invoca come “madre di Cristo e di tutta la Chiesa”.

Maria è anzitutto madre del Salvatore. Dio ha voluto realizzare il suo piano di salvezza mediante l’incarnazione del Verbo. Perciò, come dice san Paolo nella seconda lettura, Cristo doveva avere una madre: “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna…” Anche se non vi compare il nome proprio di “Maria”, questo testo è straordinariamente importante. Vi si trova il primo spunto della riflessione della fede cristiana su Maria, in stretta connessione con il concetto di “maternità”. La maternità divina di Maria però non si limita all’ordine biologico. La sua è una maternità nel senso più completo, si esprime cioè con l’amore specificamente materno, che è unico e irrepetibile. La sua maternità è pure intuizione profonda, assecondamento completo, disponibilità e cooperazione senza riserve. Maria poi conserva e medita nel cuore tutto ciò che ascolta dal Figlio suo (cf. vangelo). Non si tratta solo di un ricordo e neppure di una semplice meditazione, ma di una partecipazione interiore. “Meditare” significa dire e ridire al proprio cuore quello che si è visto e ascoltato finché la realtà di cui si è stato testimoni non entra a formar parte della propria vita.

La prima lettura riporta la formula di benedizione sacerdotale, suggerita da Dio ad Aronne, mostrandoci in Maria la “benedetta fra le donne”, diventata causa di benedizione per tutti noi. La carne di Cristo è la carne che egli trasse dal grembo di Maria, figlia come noi di Adamo; e tale carne è la premessa della nostra solidarietà con Cristo (cf. Eb 2,14). Nel grembo della Vergine si è compiuto il “meraviglioso scambio” per il quale Dio si è “fatto uomo” e l’uomo ha accolto in sé la “divinità” (cf. prefazio III di Natale). La via della divinizzazione dell’uomo è l’umanizzazione di Dio.

Maria è anche madre nostra. Nella seconda lettura san Paolo afferma che Dio manda il suo Figlio “per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”. Corrado di Sassonia, un teologo francescano del secolo XIII, contemplando questo mistero, esclama: “Benedetta la madre per la quale Cristo è divenuto nostro fratello. E benedetto il fratello per il quale Maria è divenuta la nostra madre”.

La celebrazione della divina maternità di Maria è un invito a cominciare il nuovo anno nella consapevolezza che l’amore di Dio, per mezzo di Maria, è entrato nella storia per riscattare la nostra vita dal dominio del tempo e della morte.


sabato 30 dicembre 2017

SANTA FAMIGLIA DI GESU’ MARIA E GIUSEPPE (B) - 31 Dicembre 2017





Gen 15,1-6; 21,1-3; Sal 104 (105); Eb 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40

E’ normale che i brani della Bibbia che ci propone la liturgia odierna siano da noi letti alla luce della festa della Santa Famiglia, in funzione della quale essi vengono proposti. In questi brani si parla di due famiglie, quella di Abramo e Sara nella prima e seconda lettura, e quella di Giuseppe e Maria nella lettura evangelica, e quindi, si parla anche dei loro rispettivi figli avuti in modo straordinario: Isacco e Gesù. Nei due racconti viene messa in evidenza la fede di queste famiglie: nella prima lettura si dice che Abramo “credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”. E la lettera agli Ebrei aggiunge che Sara “per fede [...] ricevette la possibilità di diventare madre...” La lettura evangelica può essere interpretata anche con questa chiave di lettura: Giuseppe e Maria portano Gesù al tempio di Gerusalemme, e compiono ciò che la Legge comanda riguardo a un figlio primogenito, lo consacrano cioè a Dio riconoscendo in questo modo che non loro ma Dio è il Signore; non per fare la loro volontà, ma quella di Dio; per questo hanno ricevuto in dono dal Signore questo bambino. Atteggiamento di fede e sottomissione al volere di Dio.

La festa della Santa Famiglia è stimolatrice di molte riflessioni e orientamenti operativi in un contesto culturale come il nostro, in cui la famiglia non è una realtà pacificamente acquisita e da tutti difesa e promossa. Ma la parola di Dio che abbiamo ascoltato ci invita a riflettere anzitutto sullo spazio che ha la fede nelle nostre famiglie. La famiglia cristiana, per prima cosa, dovrebbe trovare il coraggio della fede. La nascita straordinaria di Isacco e, soprattutto, quella di Gesù ci fanno capire che i figli sono un dono di Dio più che frutto della scelta dell’uomo. Mettere al mondo un figlio è una scelta che per un cristiano rientra pienamente nell’ambito della sua fede: fede nella vita e fede nel Dio della vita: la fede nella vita, quando diventa piena, senza condizioni, trova la sua giustificazione in un Dio che ha creato e conserva il mondo con amore; e viceversa la fede in Dio, quando è sincera ed efficace, conduce a dire un “sì” gioioso e senza condizione alla vita. Ma questa fede non si esaurisce in un “sì” iniziale. La Lettera agli Ebrei richiama anche al sacrificio di Isacco e, nel racconto evangelico di Luca, ascoltiamo l’anziano Simeone che predice a Maria: tuo Figlio sarà “segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”. La fede deve essere pronta ad affrontare il momento della prova. Quando i rapporti familiari vengono compromessi dalle incomprensioni o semplicemente logorati dal tempo, è allora che la fede può e deve venire in aiuto per rinsaldare i legami e rilanciare la comunione. È il momento di dare una risposta di fede al Dio fedele.


Benché all’origine della sua istituzione vi siano considerazioni pastorali e di spiritualità familiare, la festa della Santa Famiglia è, anzitutto, la celebrazione del mistero dell’Incarnazione, di cui essa evidenzia la concretissima realtà.

lunedì 25 dicembre 2017

LINGUA VIVA NON SIGNIFICA SOLTANTO COMPRENSIBILITÀ MA MOLTO DI PIÙ


«Ci si rende conto, come annotava Guardini, che “l’uomo vive nel linguaggio e in virtù di esso” e che pertanto “il linguaggio è un ambito oggettivo, un contesto di strutture di significato che accoglie il singolo alla nascita, nel quale egli si muove, dal quale riceve forma e impronta fino nel più profondo, che dischiude certi ambiti di vita e altri ne preclude” (R. Guardini, Etica. Lezioni all’Università di Monaco (1950-1962), Morcelliana, Brescia 2001, 242). Detto altrimenti, è chiaro che la lingua viva, ogni lingua, proprio per la capacità di dare forma all’uomo e al pensiero, di scavare nel profondo dell’esperienza e dell’autocoscienza, di consentire l’accesso al reale, è e deve essere singolare e autorevole mediazione del mistero. Al di fuori di una visione così ampia, ogni discorso sulla lingua del popolo nella liturgia, favorevole o contrario, risulta sterile e a corto respiro.

[…] Ogni lingua è liturgica nella misura in cui può garantire la partecipazione di tutto l’uomo, del suo volere come del suo sentire, al dono di grazia, percependo la distanza dall’Altissimo e gustandone la consolante presenza, ascoltandone la voce e, al contempo, rimanendo in vita (cf. Dt 4,23). Non può esserci ostacolo alcuno all’ingresso delle lingue degli uomini nella liturgia, e se nessuna lingua “sacra” può arrogarsi l’esclusiva di poter dire il mistero o di rivestire i tanti atteggiamenti della fede, così nessuna lingua è tanto povera da non poter essere umile epifania delle opere di Dio e dare voce alla risposta degli oranti […]

La logica dell’incarnazione pretende che anche la celebrazione assicuri il doppio binario dell’ulteriorità, per il quale la liturgia con i suoi linguaggi rinvia al mistero che le parole umane riescono a malapena a balbettare, e dell’umanità, per il quale il celebrare non tradisce il radicamento storico e culturale dei celebranti.»

(Loris Della Pietra, La parola restituita. La ricchezza del linguaggio liturgico, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, pp. 53-55).


domenica 24 dicembre 2017

NATALE DEL SIGNORE



NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2017
Messa della notte


Is 9,1-3.5-6; Sal 95 (96); Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Il brano evangelico della notte di Natale illustra con scarna e suggestiva semplicità il contesto storico e geografico della nascita di Gesù. Il Salvatore nasce in un momento ben determinato della storia umana, in un luogo povero e sconosciuto. Testimoni di questo evento sono stati alcuni umili pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo è apparso ai pastori, annunciando la portata salvifica dell’avvenimento: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”. E’ un “oggi” vero spartiacque della storia. Il tempo dell’attesa è finito: il Salvatore, il promesso discendente di Davide, è nato, ed è nato oggi. La liturgia di questa notte ripete l’avverbio di tempo “oggi”, che nella sua semplicità esprime il dinamismo salvifico dell’economia sacramentale, eco e continuazione dell’economia storico-salvifica (cf. antifona d’ingresso, salmo responsoriale, canto al vangelo, antifona alla comunione). Nella notte di Natale siamo invitati a fare nostra la gioia dei tempi messianici e a ringraziare Dio “nel più alto dei cieli” per le meraviglie da lui compiute a favore degli uomini che egli ama. La gioia natalizia ha come fondamento il fatto che la salvezza si realizza nell’oggi.

Notiamo i tre titoli dati dall’angelo a Gesù: Salvatore, Cristo e Signore. Il ritornello del salmo responsoriale riprende le parole dell’angelo ai pastori: “Oggi è nato per noi il Salvatore”. Come sottolinea il riferimento alla città di Davide, questo Salvatore si identifica col Messia, il Cristo. Non si tratta perciò di una salvezza qualunque, ma di quella messianica in cui si verifica la salvezza definitiva. Anche il brano profetico della prima lettura preannuncia una prodigiosa liberazione e l’instaurazione di un regno di pace e di giustizia ad opera di un fanciullo della stirpe davidica. Il brano paolino della seconda lettura parla della “manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo”. Gesù riceve il nome di Signore (Kyrios), espressione che sta a significare il nome di Dio. Gesù ha applicato a se stesso il Sal 110, dove Davide chiama il Messia suo Signore.

La moltitudine dell’esercito celeste loda Dio e dice: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama”. La nascita di Gesù è la manifestazione della gloria divina al mondo. Nelle teofanie dell’Antico Testamento l’autorivelazione di Dio agli uomini era parziale e avveniva fra spaventosi fenomeni cosmici. A Natale il mondo divino si automanifesta in modo compiuto e nella semplicità di un Bambino in un’atmosfera di gioia che coinvolge cielo e terra. Dio si manifesta sotto sembianze umane. Si tratta quindi di riconoscere il mistero della presenza di Dio nelle trame degli eventi umani, di credere in Dio a partire da una realtà che agli occhi del nostro corpo appare puramente umana. E’ in questa ottica che possiamo interpretare i piccoli segni che accompagnano il grande segno, il Bambino: le fasce, la mangiatoia… I termini “gloria” e “pace” sono intimamente collegati e si illuminano a vicenda: la “gloria” sale finalmente a Dio dalla terra, perché in Cristo si attua il suo disegno di amore e di salvezza; la “pace” esprime la pienezza dei beni messianici, fra cui anche l’effettiva rappacificazione degli uomini fra di loro.

Convocati per la gioiosa celebrazione della liturgia natalizia siamo invitati a testimoniare “nella vita l’annunzio della salvezza, per giungere alla gloria del cielo” (preghiera dopo la comunione).


NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2017
Messa dell’aurora


Is 62,11-12; dal Sal 96 (97); Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

La Messa natalizia dell’aurora ci propone ancora un brano evangelico tratto da san Luca, che fa seguito a quello letto nella messa della notte. In questa seconda parte del racconto, i protagonisti sono i pastori e Maria. I pastori vanno a Betlemme ad adorare il Bambino e poi annunciano ciò che hanno visto. Maria appare in meditazione silenziosa davanti al bambino “che giace in una mangiatoia”.   

Una volta gli angeli si sono allontanati dai pastori, essi si affrettarono a recarsi a Betlemme: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. All’annuncio segue l’ubbidienza della fede. I pastori vogliono vedere l’evento. La parola del Signore è sempre un evento. Per questo si affrettano e trovano Maria e Giuseppe e il bambino. Quanto è stato annunciato dall’angelo è vero e se lo dicono l’un l’altro e raccontano ciò che di quel bambino è stato detto loro. Luca parla di “tutti quelli che udivano…” La scena quindi si allarga: è agli abitanti di Betlemme, a tutti coloro che trovano nel loro cammino che i pastori raccontano quanto è avvenuto. I pastori se ne sono andati “glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto”. Il loro andare diventerà, nel corso del Vangelo e degli Atti degli Apostoli, paradigma della diffusione del Vangelo tra le genti. Il messaggio infatti è per tutti gli uomini che Dio ama (cf. Lc 2,14).

L’atteggiamento di Maria, l’altra protagonista del racconto lucano, si differenzia da quello degli altri: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. La parola “meditare” merita qui una particolare attenzione. Nel Nuovo Testamento è usata soltanto da Luca nel suo vangelo e negli Atti. Il significato originario e fondamentale del termine è “raccogliere”, “collegare”, “mettere a confronto” eventi e parole, realtà e mistero. Viene da pensare, innanzitutto, che Maria mettesse le cose udite dai pastori in relazione con quello che le era già stato rivelato sul suo bambino. E’ poi probabile che ella collegasse questi fatti con quello che i padri e i profeti avevano detto nella Scrittura. Maria custodiva tutte queste cose non nella mente, ma “nel cuore”, cioè nel luogo più segreto e interiore della persona, là dove lo spirito prende contatto con le cose di Dio, le riconosce e le conserva incancellabili. Ecco quindi che Maria vive una magnifica esperienza di ascolto, rendendosi disponibile in un crescendo di fede e di comprensione del mistero della salvezza in Gesù, a tutte le mediazioni autorevoli, anche nella loro apparente irrilevanza e umiltà; fino a farsi ascoltatrice della Parola viva del suo figlio Gesù. Fin d’ora Maria è il tipo di ogni vero uditore della parola di Dio. Maria è la “vergine dell’ascolto sapienziale” perché, come il sapiente biblico, ricorda quanto Dio le ha donato di vivere, medita per riconoscere negli eventi vissuti i segni della misericordia divina, di cui ci parla san Paolo nella seconda lettura della messa.

In questo mattino di Natale, anche noi siamo invitati a fare proprio come i pastori: andare, trovare, vedere, riferire sono i verbi dell’accoglienza e della testimonianza. La loro esperienza, le loro azioni altro non sono che l’immagine viva di quello che significa credere nel Signore Gesù. Come Maria, anche noi siamo invitati a contemplare il mistero del Verbo fatto carne, conoscere con la fede la profondità del mistero e viverlo con amore intenso e generoso (cf. preghiera dopo la comunione).


NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2017
Messa del giorno


Is 52,7-10; Sal 97 (98); Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

Tra le letture bibliche della Messa del giorno di Natale, emerge lo splendido brano della prima pagina del vangelo di Giovanni, testo sobrio e solenne al tempo stesso, di profonda dottrina cristologica, vero antidoto contro ogni eventuale lettura sentimentale, fatua e consumistica del mistero natalizio. Oggetto dei 18 versetti del prologo giovanneo è Gesù Cristo, colto nelle sue diverse dimensioni.

Anzitutto meritano una particolare attenzione le prime battute del prologo: “In principio era il Verbo…” Il termine “principio” è accompagnato dal verbo essere al tempo imperfetto (“era”). In questo modo, Giovanni intende affermare che una realtà sussiste indipendentemente dai condizionamenti imposti dal decorrere del tempo. Infatti quando l’evangelista vuole significare la delimitazione temporale utilizza i verbi “essere fatto” per dire che una cosa ha avuto inizio in un determinato momento, e “diventare” per alludere a qualche aspetto della mutabilità. Ecco quindi che l’espressione giovannea intende dire che il Verbo era precedentemente all’esistere del tempo, all’ “in principio” in cui l’esistente ha preso inizio, dunque da sempre, dall’eternità. In questo modo, Giovanni ci mostra che il Cristo ingloba in sé non solo l’orizzonte dell’antica Alleanza ma anche quello della creazione.

Questo “Verbo” eterno “si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. “Carne”, senza ulteriori specificazioni, non significa semplicemente uomo, ma l’uomo legato alla terra, debole e caduco. Si direbbe che Giovanni intenda sottolineare tutta la diversità e distanza fra il divino e l’umano. Il Verbo che era “presso Dio” ora è “fra noi”, non solo vicino a noi ma pienamente partecipe della nostra umanità. Nel linguaggio biblico “carne” non significa il corpo dell’uomo contrapposto allo spirito, ma l’uomo intero colto nella sua caducità, nella sua debolezza, nel suo essere consegnato alla morte. Possiamo quindi affermare che il cosmo e la storia, lo spazio e il tempo, le cose e l’uomo, l’essere tutto acquistano nel mistero dell’Incarnazione un senso perché in essi si inserisce il Verbo eterno di Dio.

Qual è l’atteggiamento dell’uomo dinanzi a questo mistero? Giovanni afferma che il Verbo “venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio…” Dinanzi a questo mistero la reazione è duplice: il rifiuto aggressivo o l’accoglienza fedele. Giovanni qualche versetto prima usa l’espressione: “il mondo non l’ha riconosciuto”. “Riconoscere” e “accogliere” sono due verbi importanti che il seguito del vangelo di Giovanni chiarisce. Riconoscere non è solo ascoltare la parola di Gesù e neppure solo capirne il senso, ma comprendere che le sue parole provengono dal Padre (cf. anche la seconda lettura). Si tratta quindi di riconoscere, ascoltando le parole e vedendo i segni da lui compiuti, che Gesù è il Figlio che viene dal Padre: è dunque il mistero della persona di Gesù, la sua origine, che va compresa e riconosciuta. E accogliere implica apertura, disponibilità e sequela.

Nella colletta della messa, riallacciandoci al v. 12 del prologo, chiediamo a Dio che “possiamo condividere la vita divina di suo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”.






sabato 23 dicembre 2017

DOMENICA IV DI AVVENTO (B) – 24 Dicembre 2017





2Sam 7,1-5.8b-12.14a.16; Sal 88 (89); Rm 16,25-27; Lc 1,26-38


Le letture bibliche di quest’ultima domenica di Avvento, imminente ormai la celebrazione del Natale, mettono in evidenza due temi principali: il primo è quello della fedeltà di Dio. La promessa fatta da Dio per mezzo del profeta Natan a Davide (prima lettura) si è adempiuta nella nascita di Gesù Cristo, il Messia. Egli infatti è figlio di Davide e il suo regno è stabile per sempre. Ciò viene messo in evidenza da san Luca nel brano evangelico. Infatti, le parole di Gabriele a Maria si agganciano strettamente a quelle del profeta Natan. A Davide Dio aveva assicurato un “discendente uscito dalle sue viscere”; a Maria è annunciato un figlio del suo grembo, che “sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Per realizzare il suo meraviglioso disegno nascosto da secoli, Dio non ha scelto un re, bensì un’umile ragazza, una vergine dell’oscuro villaggio di Nazaret. Non le ha inviato un profeta, ma il suo angelo, messaggero dell’annuncio più straordinario della storia.

Il secondo tema proposto alla nostra attenzione è l’atteggiamento di fede e di obbedienza di Maria, che alle parole dell’angelo risponde: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (parole riprese anche dal canto al vangelo). La bellissima pagina evangelica dell’annunciazione si chiude con l’adesione di Maria ai piani di Dio, a lei svelati dall’angelo. Come Gesù è servo di Dio, offertosi al Padre in un atteggiamento di obbedienza per la salvezza degli uomini, così anche Maria si dichiara serva del Signore pronta a collaborare al suo disegno di salvezza. Dice a questo proposito il Vaticano II: “Dio non si è servito di Maria in modo puramente passivo, ma [...] ella ha cooperato alla salvezza umana nella libertà della sua fede e della sua obbedienza” (Costituzione Lumen Gentium, n.56).

Il piano divino della salvezza viene proposto anche a noi perché lo accettiamo sottomettendo ad esso i nostri progetti e la stessa nostra esistenza. La fede appare così come un atto di obbedienza, nel senso che credere significa lasciare che la propria vita sia illuminata e determinata dal piano di Dio (cf. seconda lettura). Il mistero di salvezza iniziato in Maria continua in noi. Nella Vergine di Nazaret troviamo il modello di vita d’ogni uomo che si apre al dono della salvezza. Anche noi, come Maria, siamo chiamati a prepararci a ricevere il Figlio di Dio “nel cuore e nel corpo”, con totale disponibilità, e così cooperare, con libera fede e incondizionata obbedienza, all’avvento del suo regno in noi e nel mondo intero. Sono i nostri sì quotidiani alla giustizia, alla carità, alla condivisione, alla fedeltà verso il vangelo che rendono sempre più vero ed efficace il Natale di salvezza per noi e per il mondo intero.


domenica 17 dicembre 2017

LA RICCHEZZA DEL LINGUAGGIO LITURGICO



Loris Della Pietra, La parola restituita. La ricchezza del linguaggio liturgico (Grammatica della liturgia 3), San Paolo, Cinisello Balsamo 2017. 110 pp.

Che il linguaggio verbale sia una componente di rilievo nella celebrazione cristiana è un dato di fatto. Nella liturgia, però, troppo “vociferare” è la spia di un disagio nei confronti della parola, sovente ridotta a veicolo superfluo del messaggio da trasmettere.

La parola liturgica sulla trama del rito è, invece, linguaggio che agisce mentre viene messo in atto fino a scolpire la dimensione più intima di chi la proferisce e di chi la ascolta. Riscoprire questa potenzialità della parola è una risorsa utile a non disperdere la forza della parola viva e del suo risuonare in mezza agli uomini.

È dunque urgente, come ben dimostra questo volume, avere una maggiore consapevolezza della ricchezza della parola nella liturgia, affinché quest’ultima possa “prendere la parola” nel cammino di fede degli uomini.


(Quarta di copertina) 

sabato 16 dicembre 2017

DOMENICA III DI AVVENTO (B) – 17 Dicembre 2017





Is 61,1-2.10-11; Lc 1,46-54; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

Oggi il salmo responsoriale è costituito da un brano del Magnificat. Si tratta della preghiera per eccellenza di Maria, il canto dei tempi messianici nel quale confluiscono l’esultanza dell’antico e del nuovo Israele. Maria, nel suo cantico, è cosciente dei legami che la stringono alla comunità del popolo di Dio. La Madre di Gesù proclama che ciò che Dio ha fatto nella sua persona, lo ha fatto per se stessa e per tutto il popolo dei credenti. Pertanto, la grazia profusa in Maria deve ridondare a beneficio dell’intera Chiesa del popolo di Dio. Ogni giorno alla sera cantando il Magnificat la Chiesa riprende le parole della Madre del Signore per manifestare la propria speranza nell’adempimento delle promesse divine in favore dell’umanità.

Le tre letture bibliche dell’odierna domenica contengono altrettanti messaggi, i quali sono da considerarsi complementari. Giovanni Battista annuncia che il Messia viene tra noi come uno “sconosciuto”. Isaia lo presenta come Messia dei “poveri”. Paolo ci invita a “gioire” per la venuta del Messia e ad andargli incontro. Questi temi si collocano come un prolungamento naturale del messaggio della domenica precedente: la gioia che scaturisce dal cuore dell’uomo che riconosce e accoglie Cristo che viene e che è presente nella storia esige una condivisione con i fratelli e, in particolare, un atteggiamento di servizio ai più poveri, come naturale componente della conversione e logica conseguenza dell’incontro con Cristo. Priva di questi segni, la conversione stessa si esaurisce in una sorta di velleitarismo spiritualistico, destinato a rimanere infruttuoso.

Il tema della gioia è presente già nell’antifona d’ingresso: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4.5). Lo stesso tema troviamo nell’orazione colletta e in qualche antifona della Liturgia delle ore. La gioia di cui parlano i testi odierni non è una chimera e neppure un sentimento passeggero frutto di un’emozione o di una esaltazione momentanee; è invece una realtà profonda che procede dall’essere stati salvati e dal sapersi, perciò, in pace con “il Dio della pace” (1Ts 5,23), cioè inseriti in quella nuova ed eterna alleanza inaugurata nella storia umana con l’apparizione del Figlio di Dio. È questa presenza, questa “vicinanza”, anzi questa intimità di Dio con l’uomo, oramai liberato, a determinare la gioia autentica, a inaugurare la vera “festa” cristiana che non conosce tramonto.

La comunione con Cristo, che realizza in pieno la “visita” di Dio al suo popolo per salvarlo non può rimanere un fatto intimistico, che si esaurisce in una sorta di sterile soddisfazione o di appagamento interiore. Per il fatto che Dio è Padre di tutti e vuole tutti salvi, essa non può non estendersi agli altri. Gesù è mandato “per portare il lieto annuncio ai poveri”, per annunciare l’intervento di Dio che salva tutti coloro che sono nella tribolazione o nel bisogno: gli affamati, i prigionieri, coloro che hanno il cuore spezzato, per “promulgare l’anno di misericordia del Signore”.  Questo “anno di misericordia” si riferisce all’anno del giubileo (cf. Lv 25), quell’anno cinquantesimo in cui venivano condonati i debiti e ciascuno rientrava in possesso delle proprietà che aveva dovuto alienare. Il giubileo intende ricostituire quindi la condizione originaria d’integrità delle persone cancellando tutto quello che aveva potuto guastarla. È una prospettiva stupenda secondo la quale comprendere la vita e la missione di Gesù: egli è venuto per liberare l’uomo da ogni malattia e infermità e riportarlo all’integrità della sua condizione iniziale, quando era stato creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27).


domenica 10 dicembre 2017

COME ONORARE QUALITATIVAMENTE LE LITURGIE DOMENICALI



Dal vortice di esperimenti postconciliari alla routine pastorale di oggi, sul compito di onorare qualitativamente le liturgie domenicali si è addensata l’applicazione di ogni tipo di strategia additiva, trascinata dalla parola d’ordine della “partecipazione attiva”, equivocata molto spesso a sua volta come immediatezza emotiva del culto o comprensione cognitiva del rito. Ne è scaturita quella cura molto ingenua di una liturgia affollata di espedienti a ribasso, più vicini alla logica dell’intrattenimento che ai processi della mistagogia.

A complicare le cose ci si è messo questo vento di ritorno per predilezioni neotridentine che in realtà si innesta, per quanto inconsapevolmente, sulla stessa logica di incentivazione emotiva dell’ordinario cabaret liturgico in diffusione quotidiana. Il “senso del mistero” tanto rivendicato resta una sigla altrettanto pretestuosa che quella della “partecipazione attiva”. Tutto in realtà è molto più misterioso di questa chiara, chiarissima, attrazione per un immaginario di sicurezza psichica.

Ho l’impressione che stiamo comprendendo soltanto adesso, a cinquant’anni dal Concilio, la densa posta in gioco della riforma liturgica e la competenza necessaria a dare forma eloquente all’estetica del segno che le corrisponde.



Giuliano Zanchi, Liturgia ed esperienza cristiana, in “Celebrare in spirito e verità. L’esperienza spirituale della liturgia”, Edizioni Glossa, Milano 2017, pp. 35-36

venerdì 8 dicembre 2017

DOMENICA II DI AVVENTO (B) – 10 Dicembre 2017



Is 40,1-5.9-11; Sal 84 (85); 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

Il Sal 84 nella sua seconda parte, che è quella ripresa dal salmo responsoriale della liturgia odierna, dà voce al profeta che annuncia un messaggio da parte di Dio: messaggio di pace, di misericordia, di verità, di giustizia. In questo messaggio, Dio promette di riprendere il suo posto in mezzo al popolo, purificato dall’esilio e dalle sofferenze. La tradizione cristiana ha riletto questo canto del “ritorno” di Israele alla sua terra e al suo Dio, e del “ritorno” di Dio verso Israele, sua sposa, come la celebrazione dell’abbraccio perfetto in Cristo tra la natura umana e la natura divina. Di Natale in Natale, la promessa del Signore apre davanti alla Chiesa la prospettiva dell’Avvento finale di Cristo, in cui pace e giustizia, amore e verità raccoglieranno in un unico abbraccio il cielo e la terra.

Alle parole del profeta Isaia riprese dalla prima lettura: “preparate la via al Signore”, fanno eco le parole di Giovanni Battista raccolte dal brano evangelico: “preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Ogni vero incontro è frutto di un reciproco cammino. Il Signore ci viene incontro, ma ciascuno di noi deve compiere il suo tratto di strada con la propria conversione. Ce lo ricorda san Pietro nella seconda lettura: “nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”. L’insegnamento di fondo che la parola di Dio ci rivolge in questa domenica è quindi un invito alla conversione per ristabilire la comunione col Signore che viene continuamente a noi. Dio entra nella storia umana e si rivela pienamente in Gesù Cristo, per invitare ed ammettere gli uomini alla comunione con sé e fare di tutti gli uomini una comunità di fratelli, che è la Chiesa - nuova Gerusalemme. Questo fatto che interpella in prima persona ogni uomo che vive nel mondo, è un’autentica chiamata alla vera vita, alla vera felicità. La risposta all’invito divino esige l’apertura del cuore, un atteggiamento cioè di disponibilità e di accoglienza, permeato di quella semplicità e povertà che è alla base della fede; e richiede che si scavi nella propria vita una strada e la si percorra, con gioia e coerenza, fino all’incontro definitivo con il Signore.

Tra le immagini con cui le letture bibliche d’oggi parlano della conversione c’è quella della “strada” o della “via”, tema biblico classico, che esprime tutto il dinamismo della fede, intesa non tanto come atteggiamento intellettuale, quanto piuttosto come uno stile di vita nel quale si traduce la fedeltà al vangelo e quindi come “sequela” di Cristo. In questa prospettiva la vita cristiana appare come un “cammino” di fede - conversione, compiuto insieme agli altri fratelli per incontrare il Signore che viene e per fare l’esperienza della sua comunione. Ostacoli sul nostro cammino non ne mancano. Vi sono, fra l’altro, le realtà terrene, quando non vengono usate “con la sapienza che viene dal cielo”, come dice la colletta. Perciò nella preghiera dopo la comunione chiediamo a Dio di saper “valutare con sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo”.

Il Signore e giudice della storia verrà e “in quel giorno tremendo e glorioso passerà il mondo presente e sorgeranno cieli nuovi e terra nuova” (II prefazio dell’Avvento). L’eucaristia facendo memoria della morte e risurrezione di Cristo pone per ciascuno di noi che vi partecipiamo un segno e una caparra di salvezza per quel giorno “tremendo e glorioso”. Infatti nell’eucaristia Cristo ci ammette alla sua comunione, segno e caparra di quella comunione piena e definitiva alla fine dei tempi.




mercoledì 6 dicembre 2017

IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA – 8 Dicembre 2017



Gn 3,9-15.20; Sal 97 (98); Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

La Chiesa celebra l’immacolata concezione della vergine Maria nel Tempo di Avvento, in cui la liturgia fa memoria del progetto della salvezza secondo il quale Dio, nella sua misericordia, chiamò i Patriarchi e strinse con loro un’alleanza d’amore; diede la legge di Mosè; suscitò i Profeti; elesse Davide, dalla cui stirpe doveva nascere il Salvatore del mondo: di questa stirpe Maria è figlia eletta, quasi il punto di arrivo. Il nucleo di verità che ci è comunicata dall’immacolata concezione di Maria è quello del rapporto tra il divino e l’umano: tra questi due poli c’è un “punto” d’intersezione che è appunto Maria immacolata.

La prima lettura ci ricorda che la buona novella della salvezza è antica quanto la presenza del male nel mondo. È attraverso una donna, Eva, che, cedendo alle lusinghe ingannevoli del serpente, il male si introduce nella storia. È anche una donna, Maria, che attraverso la sua discendenza, è all’origine della vittoria definitiva del bene sul male. Maria ascolta la parola di Dio che le viene portata dall’angelo e, con la sua accettazione del piano salvifico di Dio fa sì che questa parola si realizzi e che il Verbo si faccia carne “per noi uomini e per la nostra salvezza”.

Celebrando l’immacolata concezione di Maria, la Chiesa rende grazie a Dio, la cui potenza redentrice è senza limiti. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che benedice Dio che “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. Ciò che l’Apostolo dice di ognuno di noi vale in modo eminente per la vergine Maria, “piena di grazia”, la madre, “benedetta fra tutte le donne”, di colui attraverso il quale ci viene ogni benedizione a lode del Padre.

L’orazione colletta del giorno spiega bene e in poche parole perché e in che modo Maria è immacolata: il Padre nell’immacolata concezione della Vergine ha preparato una degna dimora per il suo Figlio, e in previsione della morte di lui l’ha preservata di ogni macchia di peccato. Maria può cooperare alla redenzione dell’umanità perché prima ella ha ricevuto la pienezza della grazia. La madre del Salvatore è stata oggetto di una particolare scelta da parte del Padre; in seguito a questa Egli l’ha costituita punto “vertice” di tutta la storia d’Israele e punto “germinale” del nuovo Israele, la Chiesa.

Alla luce del mistero dell’immacolata concezione di Maria si comprende come il peccato è fondamentalmente una ferita all’integrità della persona, una lacerazione che va curata, restaurata. È quello che chiediamo nella preghiera dopo la comunione: che il sacramento ricevuto “guarisca in noi le ferite di quella colpa da cui, per singolare privilegio” è stata preservata “la beata Vergine Maria, nella sua immacolata concezione”. Maria immacolata, la prima dei redenti, è un segno di speranza. Ciò che è avvenuto in lei è l’anticipo della vittoria di Cristo risorto sulla morte e sul peccato.


domenica 3 dicembre 2017

A PROPOSITO DI “MAGNUM PRINCIPIUM”

 

Il recente motu proprio Magnum principium inizia ricordando “l’importante principio”, confermato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, secondo cui la preghiera liturgica, deve essere adattata alla comprensione del popolo, e che possa essere capita.  Il Vaticano II riconosce il valore della comprensione del rito, tra l’altro, quando prescrive che “i riti siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34). 

 

Questo principio lo fece proprio anche il Concilio di Trento quando riconobbe che la messa “contiene abbondante materia per l’istruzione del popolo cristiano” e, pur conservando la lingua latina, comandò “ai pastori e a tutti quelli che hanno cura d’anime di spiegare spesso personalmente o di far spiegare da altri, durante la celebrazione delle messe, qualche cosa di quello che ivi si legge e, tra l’altro, qualche cosa del mistero di questo santissimo sacrificio, specie nelle domeniche e nei giorni di festa” (Denzinger  1749). Come afferma il prof. John W. O’Malley, “Purtroppo, molto prima che terminasse il concilio, a tal punto il latino era diventato un segno chiaro della identità dei cattolici che il suo uso si è imposto incontestabilmente…” (Trento. Qué pasó en el concilio?, Sal Terrae 2015, p. 190).

 

Come interpretare questo “importante principio”? Si potrebbe interpretare, ed è un rischio, come una forzatura razionalistica che riduce il rito entro i confini della ragione. Il rito non va interpretato secondo la logica della razionalità, ma secondo la logica del simbolo. L’interpretazione più corretta del principio si raggiunge solo se cerchiamo di mettere questo e altri principi della SC in rapporto con il regime rituale precedente alla riforma di Paolo VI e con la percezione di insostenibile distanza con cui la celebrazione era percepita dai fedeli.

 

M. A.

 

venerdì 1 dicembre 2017

DOMENICA I DI AVVENTO (B) – 3 Dicembre 2017




Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79 (80); 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

Il Sal 79 è una fiduciosa supplica a Dio perché intervenga a salvare il suo popolo. Il salmista ricorda le sollecitudini divine per il suo popolo, paragonandolo ad una vite che, trapiantata dall’Egitto, ha occupato tutto il paese. Ma oggi la sua cinta è abbattuta, ogni viandante ne fa vendemmia e il cinghiale la devasta. Ecco allora che nel cuore dell’orante affiora una speranza in un re ideale, “il figlio dell’uomo” che Dio stesso ha preparato perché ritornino il sorriso e la pace in Israele. Riprendendo questo salmo in Avvento, diamo voce alle speranze e alle preghiere di tutti gli uomini che condividono con noi l’attesa del compimento definitivo della salvezza: “Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”. L’Avvento è il tempo della speranza degli uomini e di tutta la creazione.

Il tempo d’Avvento collega la venuta di Cristo a Betlemme con l’attesa del suo secondo avvento glorioso alla fine dei tempi: il Natale è considerata già una festa di trionfo connessa col trionfo redentore della croce e con quello finale del ritorno di Cristo. L’Avvento si presenta quindi come un tempo di attesa del compimento della salvezza: nell’attesa gioiosa della festa della nascita del Redentore, siamo orientati verso il ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi. L’Avvento intende suscitare in noi la nostalgia di Dio.

In questa prima domenica d’Avvento, la parola d’ordine, ripetuta per ben quattro volte nel breve brano evangelico, è “vegliate!”, siate pronti ad accogliere il Signore che viene per compiere l’opera della salvezza! Come i servi di cui parla il vangelo d’oggi, anche a noi è stato affidato un compito e abbiamo ricevuto molteplici doni di grazia per portarlo a termine. Vegliare vuol dire essere pronti a rendere conto al Padrone della gestione di quanto abbiamo ricevuto da lui. Bisogna vegliare consapevoli del peso di eternità di ogni venuta, di ogni istante che ci è donato. Gesù non dice cosa farà il padrone se, giungendo all’improvviso, troverà i servi addormentati, ma non c’è nemmeno bisogno di annunciare una qualsiasi punizione; l’essenziale in questo caso è il fallimento doloroso del proprio compito. Ci era stato affidato un incarico ed era proprio quello che dava senso alla nostra vita; averlo dimenticato significa che la nostra esistenza precipita nell’inutilità, nell’amarezza del vuoto. La vita cristiana prende inizio dalla prima venuta del Signore, si sviluppa come cammino verso la seconda e si conclude nell’effettivo incontro con il Signore. Non possiamo mancare a questo appuntamento.

Nella seconda lettura, san Paolo ci ricorda che, nell’imprevedibilità del momento preciso del ritorno del Signore, la vigilanza deve diventare impegno e testimonianza davanti al mondo, come tra i cristiani di Corinto a cui è indirizzata la sua lettera: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente, che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”. Vivere da cristiani significa assumere responsabilmente un compito che ci è stato affidato. Ma nel adempimento di questo compito non siamo soli. Nel brano della prima lettura, il profeta Isaia è consapevole della radicale incapacità dell’uomo di salvarsi da solo. E’ necessario che Dio intervenga in nostro aiuto con l’azione trasformante della sua grazia: Egli va incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle sue vie. La colletta del giorno riprende questo concetto quando si rivolge a Dio affinché “susciti in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al Cristo che viene…”



domenica 26 novembre 2017

AVVENTO



Il termine latino adventus (traduzione del greco parousía o anche epipháneia),  nel linguaggio cultuale pagano significava la venuta annuale della divinità nel suo tempio per visitare i suoi fedeli. Il Cronografo romano del 354 usa la formula Adventus Divi per designare il giorno anniversario dell’ascesa al trono di Costantino. Negli autori cristiani dei secoli III-IV, adventus è, tra l’altro, uno dei termini classici per indicare la venuta del Figlio di Dio in mezzo agli uomini, la sua manifestazione nel tempio della sua carne[1]. Il termine negli antichi Sacramentari romani viene adoperato per indicare sia la venuta del Figlio di Dio nella carne, l’adventus secundum carnem, che il suo ritorno alla fine dei tempi: in secundo cum venerit in maiestate sua (GrH, n. 813). Se Adventus, Natale, Epiphania esprimono la stessa realtà fondamentale, ci domandiamo come Adventus è passato a designare il periodo liturgico preparatorio al Natale.

Alla fine del IV secolo, troviamo in Gallia e in Spagna le prime tracce di un tempo di preparazione all’Epifania. La testimonianza più antica sarebbe un testo attribuito a sant’Ilario di Poitiers (+ 367), dove si parla di tre settimane preparatorie all’Epifania[2]. Il canone 4 del Concilio I di Zaragoza, celebrato nell’anno 380, invita i fedeli a frequentare l’assemblea durante le tre settimane che precedono la festa dell’Epifania[3]. E’ un periodo che ha un carattere vagamente ascetico senza specifiche espressioni liturgiche. Sembra che si tratti di un tempo di preparazione al battesimo che nelle Chiese ispano-gallicane si conferiva, secondo l’uso orientale, nel giorno dell’Epifania. Nel V secolo abbiamo informazioni più precise in Gallia; la notizia più importante è l’ordinamento del digiuno di Perpetuo di Tours (+ 490). Si tratta di un digiuno tre volte la settimana nel tempo che va dalla festa di san Martino (11 novembre) a Natale. J.A. Jungmann crede che questa disposizione si fonda su una originaria “Quaresima di san Martino”[4].

Nella Chiesa di Roma, dove la celebrazione del battesimo nell’Epifania non è stato mai in vigore, non si hanno notizie di una preparazione al Natale prima della seconda metà del secolo VI; essa però fin dalla sua origine è stata una specifica istituzione liturgica. I più antichi documenti al riguardo sono i testi liturgici del GeV e, in seguito, quelli del GrH. I formulari delle Tempora del mese di dicembre ebbero un significato indipendente dalla preparazione al Natale.




 [1] Cf Cipriano, Testimoniorum adversus Judaeos 2,13: PL 4,735; Ilario, Tractatus super psalmos 118,16,15: PL 9,612.
 [2] Su questo testo e la sua autenticità, cf A. Wilmart, Le parétendu “Liber Officiorum” de Saint Hilaire et l'Avent liturgique, in Revue Bénédictine 27 (1910) 500-513.
 [3] Cf  J. Vives (ed.), Concilios visigóticos e hispano-romanos, Barcelona-Madrid 1963, 17.
 [4] Cf  J.A. Jungmann, Advent und Voradvent,  Gewordene Liturgie: Studien und Durchblicke. Innsbruck:   F. Rauch1941237-249.

venerdì 24 novembre 2017

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 26 Novembre 2014 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 

Ez 34,11-12.15-17; Sal 22 (23); 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

Celebriamo Cristo “Re dell’universo”. Per comprendere correttamente questo titolo dato a Cristo bisogna riferirsi alla tradizione biblica del Dio re-pastore. L’immagine del “re” e del “pastore” nell’antichità erano interscambiabili; così come quelle del “gregge” e del “regno”. Il Sal 22 parla di Dio Pastore buono che pasce il suo popolo, lo fa riposare su pascoli erbosi e lo conduce ad acque tranquille. Nella persona di Cristo, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si è fatto incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà che superano ogni intendimento. Il salmo esprime la grande fiducia nel Signore che illumina, conforta e guida i credenti nei sentieri della vita.

L’anno liturgico si chiude sottolineando la centralità di Cristo nella storia e nella vita dell’uomo nonché il suo primato sull’universo. In effetti la solennità di Cristo Re dell’universo non intende riconoscere a Cristo un semplice titolo onorifico, ma il suo diritto a essere il centro della storia umana, la sua chiave di lettura. Il senso della storia del mondo e della vita dell’uomo si decide nel rapporto con Gesù Cristo e il rapporto con Gesù Cristo si decide nel rapporto coi fratelli. Questo doppio tema è quello che illustrano le letture bibliche odierne.

La prima lettura contiene un annuncio di speranza che il profeta Ezechiele fa pervenire al popolo d’Israele in un momento travagliato della sua storia. Dinanzi alla incapacità dei capi politici e religiosi d’Israele di essere autentiche guide al servizio del popolo, è Dio stesso che promette di prendersi cura d’Israele. Il Signore “pascerà” direttamente il suo gregge, nella speranza che questi risponderà alle sue premure. La tenerezza infinita di Dio è l’altra faccia della sua sovrana autorità, della sua onnipotenza.

La profezia di Ezechiele trova pieno compimento in Cristo. Il brano della lettera ai Corinzi della seconda lettura contempla la storia come un processo attraverso il quale il mondo deve essere sottomesso alla sovranità redentrice di Gesù. Il progetto di Dio è l’uomo liberato dalla schiavitù del peccato e ricondotto alla pienezza della verità e dell’amore e questo progetto è stato realizzato da Gesù Cristo. E quando tutto sarà stato sottomesso a Cristo, “anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Queste parole ci introducono nel brano evangelico d’oggi. Infatti, san Matteo ci presenta a Cristo Signore quando verrà nella sua gloria a giudicare il mondo. Il criterio con cui Cristo giudicherà “tutti i popoli” sarà quello di aver amato, servito, aiutato, consolato chi si sia trovato in situazione di miseria, di povertà, di sofferenza, di malattia, di ingiustizia. Gesù afferma che in ognuna di queste situazioni lui era presente, per cui ogni gesto compiuto in favore del fratello in realtà era diretto a lui. Chi ha amato i fratelli di fatto ha amato Cristo. Ecco perché riconoscere la regalità di Cristo significa imitarne lo spirito, incontrarlo nel fratello e impegnarsi a liberarlo dalle sue necessità. L’amore attua e dilata i confini del regno di Cristo, che non è una realtà né geografica né spaziale né temporale, ma è la sovranità del suo amore, che si attua già nel cuore di ogni uomo e nelle realizzazioni terrene e si compirà in pienezza alla fine quando “Dio sarà tutto in tutti” (cf. seconda lettura). Sintetizzando possiamo dire, riferendoci al grandioso scenario del giudizio finale che “alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce).


domenica 19 novembre 2017

LITURGIA E COMUNICAZIONE


 

Bruno Cescon, Liturgia grande sistema di comunicazione. Il potere comunicativo della liturgia nella modernità (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 183), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2017. 231 pp.

 

Per la Chiesa, lo strumento di comunicazione per eccellenza, cioè di cultura e informazione interna ed esterna, è la liturgia. Attraverso il rito, un insieme di parole e gesti carichi di memoria e di valori teologici e simbolici, fa conoscere pensiero e azioni della Chiesa nella stessa modernità.

 

Osservata in termini sociologici, la liturgia assume i connotati di un particolare sistema comunicativo nel contesto della modernità. Non da ultimo, la liturgia traccia dei confini tra valori e non valori nella vita individuale e sociale. Comunica infatti mediante una forma “sapienziale” di trasmissione di informazione e di contagio di emozioni che oggi diventano, pur antiche, sempre nuove. La scienza della comunicazione aiuta a comprendere come la liturgia sappia trasmettere “buone notizie” e suscitare coinvolgimenti emotivi non sempre decifrabili in modo esaustivo.

 

La liturgia come comunicazione nella modernità è dunque la scommessa di questo volume. La sua efficacia non si ferma alla vita privata delle persone, ma influenza l’intera società, ispirando comportamenti individuali e sociali, che nei regimi sono invece tenuti sotto controllo perché espressione di libertà.

 

La liturgia è definita “potere comunicativo nella modernità”, in un momento in cui nell’Occidente cristiano subisce un indebolimento di comprensione e di partecipazione.

 

Il volume è diviso in due parti: la prima è uno studio accurato, e per  certi versi nuovo, sulla liturgia nella modernità; la seconda affronta il tema della liturgia come strumento comunicativo, in particolare nel nuovo ambiente dei media.

 


(Quarta di copertina)