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domenica 25 giugno 2017

IL SENSO DEL MISTERO


 

«…Di fronte agli accenti polemici di chi lamenta la sparizione di un presunto “senso del mistero”, occorre ribadire che esso non può essere confinato in una fase evolutiva del rito romano e tanto meno in quegli aspetti che tendono piuttosto a occultare che a mostrare, ma è dato e mediato dalla partecipazione alle modalità “linguistiche” proprie del rito. A consentire la genuina percezione dell’ineffabile è la sequela docile della logica rituale, delle sue leggi e dei suoi ritmi, di ciò che appare e ciò che si nasconde, di ciò che avvicina e di ciò che pudicamente fa prendere le distanze. È così che la liturgia riesce ad avvolgere di mistero le esistenze, a fecondarle e a rilanciarle nei percorsi della storia per la testimonianza […]

Possedere il “senso del mistero” significa trovare se stessi nella vicenda salvifica di Gesù Cristo, dando e ricevendo la forma della fede, gustando la misericordia di Dio, maturando nel cammino dell’adesione al Signore. Non, dunque, una sorta di spettacolo da ammirare, possibilmente oscuro e indecifrabile, ma autentica partecipazione alla Pasqua di Cristo…»

(Loris Della Pietra, Una Chiesa che celebra, Messaggero, Padova 2017, pp. 57-58)

venerdì 23 giugno 2017

DOMENICA XII DEL TEMPO ORDINARIO ( A )


 


 
Ger 20,10-13; Sal 68; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33

 

Possiamo riassumere il contenuto delle letture bibliche odierne con queste parole: la nostra fedeltà a Dio e al suo vangelo esige talvolta un caro prezzo che, però, possiamo affrontare se abbiamo fiducia nel Signore. Nella prima lettura, vediamo che la parola del profeta Geremia è scomoda a molti dei suoi contemporanei, incontra l’ostilità addirittura dei suoi parenti e amici. Il profeta sente tutto il peso della trama ordita contro di lui. Ciò nonostante, egli è fedele alla sua missione, perché sa che il Signore non lo abbandona. Perciò affida a lui la sua causa, anzi esprime la riconoscenza per l’aiuto ricevuto. L’insegnamento del brano del vangelo s’inquadra perfettamente nel contesto della prima lettura. Per ben tre volte Gesù ripete ai suoi discepoli inviati in missione il comando: “Non abbiate paura degli uomini... non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo... non abbiate dunque paura”. Ci possiamo domandare che senso abbiano oggi le parole di Gesù? Infatti, noi viviamo in un ambiente che in genere non è minaccioso nei confronti del testimone di Cristo, ma è semplicemente distratto e disinteressato ai grandi ideali proclamati dal cristianesimo. In queste circostanze ci vuole coraggio per testimoniare valori “forti”. Oggi le parole di Gesù sono quindi un invito a non scoraggiarsi, a non gettare la spugna, a continuare con fiducia la nostra testimonianza di vita cristiana anche quando il messaggio che la nostra parola e le nostre opere intendono proclamare sembra essere insignificante e lontano dagli interessi dei nostri simili. Nella colletta alternativa chiediamo a Dio che ci sostenga con la forza del suo Spirito, “perché non ci vergogniamo mai della nostra fede”.
 
Si potrebbe dire che il cristiano si distingue dal non cristiano dal modo in cui vince la paura. L’alternativa cristiana al dubbio, all’incertezza e alla paura si chiama fiducia in Dio. Il vero discepolo di Gesù non cede alla tentazione di considerarsi dimenticato, di sentirsi insignificante, ma impara piuttosto da Gesù a fidarsi del Padre, il quale se provvede agli uccelli del cielo tanto più provvederà ai discepoli di Gesù.  Questa fiducia in Dio viene incoraggiata anche da san Paolo nel brano della seconda lettura. Il Cristo non rimedia solo a una situazione catastrofica, conseguenza del peccato che si è moltiplicato nel mondo. Infatti, in questo mondo immerso nel peccato, sovrabbonda la grazia di Dio. Con Gesù Cristo, afferma l’Apostolo, i doni di Dio “si sono riversati in abbondanza su tutti”. Si tratta di una visione ottimistica dell’umanità, visione tipicamente cristiana. È l’umanità ideale, quella del futuro, quella che nella storia, pur non essendo mai pienamente raggiunta, deve rappresentare già ora il costante obiettivo del nostro impegno quotidiano.
 
La partecipazione eucaristica, “sacrifico di espiazione…” ci purifica dai nostri peccati e ci rinnova, perché tutta la nostra vita sia accetta alla volontà del Signore (orazione sulle offerte).
 

giovedì 22 giugno 2017

SOLENNITÀ DEL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ


 
Nella pietà dei secoli XII e XIII si è sviluppata la devozione al cuore di Cristo crocifisso, trafitto con la lancia. Tra i devoti del cuore del Salvatore, troviamo san Bernardo (+ 1153), san Bonaventura (+ 1274), le mistiche santa Lutgarda (+ 1246), santa  Matilde di Magdeburgo (+ 1282), le sante sorelle Matilde (+ 1299) e Gertrude (+ 1302) del monastero di Helfta, santa Caterina da Siena (+ 1380). Già alla fine del XIII secolo, questa devozione si è organizzata distintamente da quella della passione, e al simbolo del crocifisso è subentrata l’iconografia del cuore staccato dalla persona di Cristo oppure visibile nel petto squarciato. Più tardi, nella seconda metà del secolo XV la devotio moderna, nel XVI secolo i Gesuiti e nel XVII gli Oratoriani fanno propria la devozione al Cuore di Gesù e ne favoriscono il culto. Nel 1672, l’oratoriano Giovanni Eudes (1601-1680), poi fondatore della Congregazione di Gesù e di Maria (oggi dei Padri Eudisti), è il primo a celebrare nel seno della sua comunità e col permesso del vescovo di Rennes, una festività in onore del Cuore di Gesù. Daranno nuovo impulso al culto del Sacro Cuore le apparizione avute in Paray-le-Monial tra il 1673 e il 1675 da santa Margherita Maria Alacoque dell’Ordine della Visitazione. In ogni modo, il tentativo di introdurre la nuova devozione nella liturgia incontrò a Roma grandi resistenze, soprattutto di natura teologica, che perdurarono in qualche modo nei secoli successivi.
 
Il primo riconoscimento ufficiale di Roma si deve a Clemente XIII, che nel 1765 concesse la festività del Cuore di Gesù ai vescovi polacchi e all’arciconfraternita romana del S. Cuore. Pio IX, nel 1856 la introdusse nel calendario della Chiesa latina, fissandola al terzo venerdì dopo Pentecoste. Leone XIII, con decreto del 28 giugno 1889 innalzava la festa a rito di “prima classe” e nell’Enciclica Annum sacrum, del 25 maggio 1899, ordinava la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore di Gesù. Con l’Enciclica Miserentissimus Redemptor, dell’8 maggio 1928, Pio XI elevava la festa al grado di “doppio di prima classe con ottava” e ordinava che in questa festività si recitasse in tutte le chiese l’atto di riparazione al Cuore di Gesù. Inoltre, nel 1929 lo stesso pontefice, con la promulgazione del formulario Cogitationes, chiamato così dalle prime parole dell’antifona d’ingresso, dava un nuovo contenuto ai testi liturgici di questa festa. Nella breve storia della festività si sono succeduti diversi formulari per l’ufficio e per la messa, il che dimostra la fluttuazione dottrinale che ha accompagnato il contenuto di tale celebrazione. Il Direttorio su pietà popolare e liturgia ci offre una valida sintesi dottrinale sul Cuore di Cristo:  “Intesa alla luce della Scrittura, l’espressione ‘Cuore di Cristo’ designa il mistero stesso di Cristo, la totalità del suo essere, la persona considerata nel suo nucleo più intimo ed essenziale: Figlio di Dio, sapienza increata; carità infinita, principio di salvezza e di santificazione per l’intera umanità. Il ‘Cuore di Cristo’ è Cristo, Verbo incarnato e salvatore, intrinsecamente proteso, nello Spirito, con infinito    amore divino-umano verso il Padre e verso gli uomini suoi fratelli”[1].
 
L’eucologia minore del MR 1970 riproduce, in parte, i testi del formulario Cogitationes. Notiamo però la presenza di una nuova colletta alternativa e il testo della orazione dopo la comunione rielaborato. Si parla di riparazione ed espiazione dei peccati, concetti che provengono dall’ambiente devozionale in cui è sorta la solennità. Ma la nuova colletta indica come oggetto della celebrazione le grandi opere dell'amore del Figlio di Dio per noi. Il testo eucologico più denso è senza dubbio il nuovo prefazio, che si distingue per una particolare ispirazione scritturale e patristica; in esso viene proclamato il mistero della salvezza visto nella dimensione cristologica, ecclesiologica e sacramentale:     “Cristo […] innalzato sulla croce, nel suo amore senza limiti donò la vita per noi, e dalla ferita del suo fianco effuse sangue e acqua, simbolo dei sacramenti della Chiesa, perché tutti gli uomini, attirati  al Cuore del Salvatore, attingessero con gioia alla fonte perenne della salvezza”.
 




[1] Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia, n. 166.

domenica 18 giugno 2017

IL SILENZIO NELLA LITURGIA


 
 



 
Nel Messale tridentino, le rubriche non prescrivevano nessun silenzio e nessuna pausa durante la celebrazione della Messa. Gli unici momenti nei quali il sacerdote era invitato a fare una pausa si trovavano nel Canone, al momento della commemorazione dei vivi e dei defunti, al fine di pregare per loro. La parole “silenzio” appariva nell’Ordo Missae solo nell’espressione sub silentio riferita all’Amen del Padrenostro del Venerdì Santo, che il sacerdote doveva dire sub silentio.
 

I fedeli avevano l’impressione di vivere dei lunghi spazi di silenzio durante la Messa, soprattutto in quella letta. Ciò viene dal fatto che numerose preghiere il celebrante le diceva secrete, cioè sottovoce. Questa consuetudine si è poi accentuata con la Controriforma. Bisognava distinguere bene fra sacerdote e fedeli perché i riformatori avevano l’incresciosa tendenza a negare il carattere proprio dello stato sacerdotale. Si cercò dunque, con decisione, di evitare che le preghiere latine della Messa venissero messe alla portata dei fedeli; e affinché la Messa restasse un rito da rispettare, le si stese sopra un velo di mistero.
 

Una timida apparizione del silenzio liturgico la si trova nel 1951 con la riforma della Veglia pasquale promulgata da Pio XII. Nelle orazioni che seguono le letture della Veglia pasquale, fra i famosi Flectamus genua e Levate, tutti sono invitati a pregare in silenzio per un certo tempo. Si tratta di una restaurazione perché il tempo di preghiera in silenzio esisteva già nelle liturgie antiche. Nel corso dei secoli questo breve intervallo era stato abbandonato e si assisteva ad un insensato doppio invito contradditorio: non si finiva di dire Flectamus genua che già si diceva Levate. Il Messale del 1962 prescriveva che la processione d’entrata dell’ufficio della Passione del Signore venisse fatta in silenzio. I fedeli venivano invitati a mettersi in ginocchio durante l’adorazione della croce e a “adorare per qualche minuto in silenzio”… Vediamo dunque che le rubriche erano più precise e che comparivano per prima volta delle indicazioni a rispettare dei tempi di silenzio.
 

Nel Messale di Paolo VI, ormai il silenzio fa parte della celebrazione, in fedeltà a quanto prescrive il Vaticano II: “Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio” (SC 30). È la prima volta che il silenzio trova realmente posto in un documento ufficiale della liturgia. La Costituzione liturgica lo presenta come una delle modalità di partecipazione attiva dei fedeli. Nell’attuale terza edizione tipica del Missale Romanum, nell’Institutio generalis la parola “silenzio”, che nella precedente versione ricorreva dodici volte, ora vi ricorre ventitré volte. La natura del silenzio varia a seconda del momento della celebrazione a cui si fa riferimento. Ci sono silenzi di “raccoglimento”, silenzi di “meditazione”, silenzi di “lode e di preghiera”.
 

Ci sono anche silenzi intempestivi che spezzano il ritmo della celebrazione. Per esempio, fare un tempo di silenzio prolungato dopo la consacrazione non è opportuno perché la preghiera eucaristica è un tutt’uno e costituisce essa stessa un atto di adorazione. Ci sono poi cattivi silenzi, per esempio quando l’assemblea non risponde o non canta, e allora la celebrazione diventa un lungo monologo impersonale, freddo e noioso.
 

Come mai il silenzio è stato riscoperto proprio col movimento liturgico e col Vaticano II? La Costituzione liturgica ha chiesto che siano aperti “più largamente i tesori della Bibbia, in modo che […] si legga al popolo la maggior parte della sacra Scrittura” (n. 51). Pian piano si è venuta a formare una specie di legge: più parola di Dio implica più silenzio della comunità cristiana riunita.
 

Il silenzio nella liturgia  dice qualcosa della teologia della Chiesa: Osservato da tutti, sacerdote e fedeli, il silenzio è un’azione liturgica alla quale ognuno, in ragione del proprio sacerdozio battesimale, partecipa attivamente e personalmente; il silenzio manifesta che la Chiesa è il popolo di Dio che si raduna per celebrare, pregare, cantare, tacere insieme; il silenzio favorisce un incontro personale con il Signore; il silenzio di raccoglimento testimonia una Chiesa che si sa peccatrice e invoca la grazia e il perdono di Dio; il silenzio di meditazione indica che la celebrazione e anche luogo dove Dio parla al suo popolo attraverso le Scritture, e questa parola ha bisogno di essere meditata; il silenzio di preghiera e di lode, in particolare quello dopo la comunione, attesta una Chiesa che continua ad essere nutrita dalla presenza reale del Salvatore che la costituisce  e la fa vivere.

 
 

Fonte: Questo post è frutto, e libera sintesi, di un libro che vale la pena di leggere: Pascal Desthieux, Vivere il silenzio nella liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017. 219 pp.     

 

 

 
 

sabato 17 giugno 2017

SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO (A)


 
 

 
 
 
Dt  8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
  
Della molteplice ricchezza che racchiude il mistero eucaristico, le letture bibliche odierne, come del resto fa l’intero Nuovo Testamento, mettono in evidenza in modo particolare la dimensione di dono e di nutrimento. I segni del pane e del vino esprimono prima di tutto e soprattutto il banchetto. La prima lettura fa riferimento ai doni elargiti da Dio al suo popolo nel deserto, dove Israele ha sperimentato la provvidenza paterna del Signore. Fra questi doni spicca la manna, quel nutrimento misterioso considerato poi da Gesù nel brano del vangelo d’oggi come prefigurazione o anticipazione del pane che Egli stesso dona a chi crede in Lui e che, contrariamente al cibo del deserto, è nutrimento per la vita eterna. Questo pane è Gesù stesso. Nella seconda lettura, san Paolo afferma che questo cibo ha la forza di costruire la comunione fra tutti quelli che lo mangiano: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”. L’eucaristia è vero nutrimento spirituale per i singoli e per l’intera comunità.
 
Nel deserto Dio ha nutrito il suo popolo con la manna; ma i doni del Signore sono sempre solo il segno di quel dono che è Egli stesso. L’eucaristia proclama quindi questa verità: Dio ci nutre con un pane che viene dal cielo; ma questo pane non è solo un nutrimento materiale o spirituale; è Dio stesso che si dona a noi nel suo Figlio: “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Con queste parole, Gesù interpreta la sua vita come un dono capace di procurare la salvezza agli uomini. Ciò si avvera nel momento in cui Gesù offre la sua vita sulla croce. L’offerta di sé che Gesù ha consumato sul calvario, si perpetua nell’eucaristia sotto forma di pane e di vino, di nutrimento messo a nostra disposizione. Le parole di Gesù nell’ultima cena sono chiare al riguardo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi”.  Il primo dei due prefazi dell’eucaristia proposti dal Messale sviluppa in modo particolare questa dimensione sacrificale dell’eucaristia, istituita da Cristo come “rito del sacrificio perenne”.
 
Per tutto il tempo del pellegrinaggio verso la terra promessa il popolo eletto è stato sostenuto con la manna data da Dio. Così Israele ha imparato nel deserto che l’uomo non ha bisogno solo di pane per nutrire il suo corpo ma anche del dono di Dio per compiere il suo cammino e dare senso alla sua esistenza. Noi sappiamo che questo dono di Dio è Dio stesso che si è donato per noi in Gesù Cristo. Il dono di Cristo è presente per noi nell’eucaristia. Nella partecipazione all’eucaristia riaffermiamo la nostra appartenenza a Cristo ed entriamo in comunione con la sua esistenza offerta al Padre per noi. In questo modo, diventiamo membra del corpo di Cristo e costituiamo una sola cosa con tutti i nostri fratelli. L’orazione sulle offerte ribadisce questa dottrina quando afferma che “i doni dell’unità e della pace” sono “misticamente significati nelle offerte che presentiamo” al Signore. Nella messa di oggi, come si vede, la liturgia della parola e la liturgia eucaristica si presentano in una unità strettissima.
 
 
 
 

 

domenica 11 giugno 2017

UNA CHIESA CHE CELEBRA


 

Loris Della Pietra, Una Chiesa che celebra (Percorsi nella Liturgia), Edizioni Messaggero, Padova 2017. 110 pp.

Perché i riti? Incidono nella vita? Quale importanza possono avere se a contare sono la fede, la testimonianza e la carità? E poi: perché celebrare è un’ “arte” per tutta la comunità?

Celebrare, partecipare ai riti della chiesa non è affare del clero e dei pochi volontari. Interessa tutti perché la ritualità è parte non secondaria dell’essere uomini e donne, impregna la vita. Quando celebriamo non siamo come gli spettatori a teatro, ma compiamo gesti e parole che “prendono” la mente e il cuore e ogni volta ci trasformano, ci rigenerano, ci ritemprano.

Un saggio rivolto soprattutto ai non addetti ai lavori per scoprire l’importanza del rito e del celebrare

(Quarta di copertina).

Temi trattati: L’ars celebrandi e la passione per la forma; Con dignità e competenza; L’azione profonda; La sobria ebbrezza della liturgia; Sfide liturgiche per oggi.

venerdì 9 giugno 2017

SANTISSIMA TRINITA’ (A)


 

Es 34,4b-6.8-9; Dn 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18
 
Nel salmo responsoriale, Anania, Azaria e Misaele, i tre giovani salvati miracolosamente dal fuoco della fornace, ci invitano ad esaltare il Signore, che è degno di lode e di gloria. A questo Dio grande e infinito, che nel Nuovo Testamento si è rivelato come uno e trino, che con la sua presenza riempie l’universo e che soprattutto ha voluto fare del cuore umano la sua dimora, eleviamo la nostra preghiera di lode.
 
Celebrare la solennità della Santissima Trinità, più che professare un dogma, significa celebrare la storia della nostra salvezza, di cui Dio è il principale protagonista, quel Dio che si è reso visibile nel suo Figlio fatto carne e che continua la sua opera in mezzo a noi attraverso l’azione dello Spirito Santo. Il mistero della santa Trinità ci appare così il mistero di un’infinita presenza che avvolge la nostra esistenza e le spalanca davanti le profondità della vita divina.
 
Le tre letture, che ci vengono proposte nella messa, tracciano come un itinerario di rivelazione progressiva del mistero di Dio uno e trino agli uomini: un Dio che si rivela come “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (prima lettura); un Dio che salva: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (vangelo); un Dio che rimane sempre con noi: “vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi” (seconda lettura). Dio ci si è rivelato nel Padre come creatore e Signore dell’universo, principio e fine di ogni cosa; nel Figlio incarnato come salvatore e redentore; e nello Spirito Santo, effuso nei nostri cuori, come forza e presenza santificante.
 
La festa odierna è riassuntiva di quanto abbiamo celebrato da Natale a Pasqua - Pentecoste; una festa in cui contempliamo tutto quanto Dio uno e trino ha fatto per noi, e per tutto ciò lo lodiamo e ringraziamo. La Scrittura non dice chi Dio sia, ma come Dio agisce. Non festeggiamo quindi direttamente quello che Dio è in se stesso, perché in fondo Egli rimane sempre invisibile e inafferrabile alla nostra comprensione, ma vogliamo semplicemente far festa globale delle tracce lasciate da Dio nel suo passaggio dentro la nostra storia. Adorare questo Dio presente nella storia è riconoscere la sua proposta di amore e riconfermare la nostra adesione gioiosa a lui con una vita coerente e impegnata nella testimonianza di questo amore. In un mondo secolarizzato, e più o meno indifferente e addirittura ateo, dobbiamo aver il coraggio di testimoniare la nostra fede in un Dio che si rivela e vuol incontrare l’uomo, per liberarlo dalle sue schiavitù,  e condurlo, tramite Cristo, alla vita eterna, un Dio che vuol essere in mezzo a noi come dono di amore e di comunione. Solo Dio è la vera e perfetta unità, la vera e perfetta comunione: rendendoci trasparenti a lui, rendiamo la nostra comunione con le persone divine quasi il fondamento e il criterio della riunificazione interiore e della fraternità umana. Così la Trinità diventa il cuore dell’esperienza cristiana.
 
E’ famosa l’affermazione di Kant: “la dottrina sulla Santa Trinità non porta nessuna utilità nella vita quotidiana”, parole che esprimono forse l’opinione di molti cristiani. Il mistero trinitario offre l’immagine di un Dio ricco di rapporti in sé e come tale rivelatosi operante nella storia. Il fatto quindi che Dio sia ricco di relazioni, uno nella distinzione delle persone in pienezza di vita, ha delle conseguenze inimmaginabili per la comprensione dell’uomo, del mondo e della società. Tutto ciò si esprime nella dimensione della comunione e del dialogo. 

domenica 4 giugno 2017

IL "GLORIA"

 


Questo antichissimo canto della gloria di Dio, sorto inizialmente al di fuori del repertorio proprio della Messa e poi introdotto in essa, ebbe in origine un chiaro impianto cristologico, dovuto a un verosimile intento antiereticale, per assumere poi un andamento glorificativo del Padre, nella prima parte, con una supplica al Figlio, nella seconda; ci è giunto in diverse versioni in lingua greca, siriaca e latina, che hanno fatto la loro comparsa nel corso dei secoli con alcune varianti testuali. L’attuale testo latino corrisponde a una recensione del secolo IX, elaborata in ambito monastico. Questa “dossologia maggiore” veniva in genere eseguita dall’assemblea stessa (quando i virtuosismi melodici non inducevano a farne un pezzo di bravura artistica riservato ai cantori in forma alternata), ma aveva la peculiarità di venir intonato dal celebrante principale che si rivolgeva ai fedeli per invitarli alla lode.

 
Alcuni autori citano la notizia del Liber Pontificalis, secondo il quale il papa san Telesforo (125-136), avrebbe introdotto questo canto (chiamato qui hymnus angelicus) nella Messa del Natale. È una notizia senza fondamento, visto che, tra l’altro, tale festa appare a Roma solo nel IV secolo. La testimonianza più antica e sicura per il rito romano è l’indicazione del Sermone 6 per il Natale di san Leone Magno (440-461): “… Ripetiamo (dicamus) pertanto anche noi con le schiere della milizia celeste: ‘Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà’”. Il vangelo di Luca (2,14) avrebbe suggerito, in quel giorno, di far cantare questo antico inno all’inizio della celebrazione.

 
Al “propter magnam gloriam tuam”, il codice dell’Antifonario monastico irlandese di Bangor (databile al 691-698 e attestante la versione latina più antica a noi nota) contiene la variante: “propter magnam misericordiam tuam” (“per la tua grande misericordia”).

 
Dopo le parole “Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo”, l’attuale versione ha lasciato cadere il riferimento allo Spirito che determinava un impianto più esplicitamente trinitario nella composizione; a questo punto nel codice di Bangor si legge: “Sancte Spiritus Dei” (“Spirito Santo di Dio”).
 

“Il Gloria è un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello. Il testo di questo inno non può essere sostituito con un altro. Viene iniziato dal sacerdote o, secondo l’opportunità, dal cantore o dalla schola, ma viene cantato o da tutti simultaneamente o dal popolo alternativamente con la schola, oppure dalla stessa schola. Se non lo si canta, viene recitato da tutti, o insieme o da due cori che si alternano. Lo si canta o si recita nelle domeniche fuori del tempo di Avvento e Quaresima; e inoltre nelle solennità e feste, e in celebrazioni di particolare solennità” (Ordinamento generale del Messale Romano 53).

 
 

Fonte: Il post si ispira soprattutto (ma non solo) al testo pubblicato nel volume Un solo corpo. Mistagogia della liturgia eucaristica attraverso i testi dei padri latini, Qiqajon, Comunità di Bose 2016, pp. 315-321.

 













 

sabato 3 giugno 2017

DOMENICA DI PENTECOSTE (A) - Messa del giorno


 

 At 2,1-11; Sal 103 (104); 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23

 

Il salmo responsoriale riprende alcuni versetti del Sal 103, uno splendido inno a Dio creatore. Il salmista contempla l’opera della creazione con lo sguardo del profeta, che sente palpitare dietro la figura esteriore delle cose un mistero divino. Nel salmo, la creazione ci appare nella freschezza e purezza luminosa di quell’istante in cui uscì dalle mani del Creatore. Riprendendo le parole di questo salmo, la Chiesa proclama che abitiamo in un mondo amico, nel quale possiamo contemplare la presenza amorosa del Signore. La Pentecoste celebra la presenza dello Spirito di Dio che rinnova mondo e uomini. Ecco perché siamo invitati a rendere grazie al Signore e a cantare: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra”.
 
La solennità di Pentecoste, che “porta a compimento il mistero pasquale” (prefazio), commemora il dono dello Spirito divino effuso sugli apostoli e su tutti noi. Lo Spirito è il dono più prezioso di Cristo risorto, principio di una nuova creazione, di una nuova realtà, è l’amore di Dio effuso nei nostri cuori per rinnovare la faccia della terra. Abbiamo sentito nel vangelo come Gesù appare agli apostoli e li saluta con queste parole: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Dopo aver detto questo, alita su di loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo...”  La prima lettura ci racconta in dettaglio la scena della discesa dello Spirito sugli apostoli riuniti nel cenacolo cinquanta giorni dopo Pasqua. Ma la Pentecoste non è un evento isolato nel tempo; è un prodigio che si prolunga nella storia. Infatti, san Paolo nella seconda lettura ci ricorda che tutti noi abbiamo ricevuto lo stesso Spirito nel quale siamo stati battezzati. Lo Spirito è effuso su tutti ed è all’origine dei diversi doni che sono in noi non solo per l’utilità personale ma anche “per il bene comune”.
 
Possiamo soffermarci su quest’idea, che è centrale nell’insegnamento dell’apostolo Paolo. Egli illustra la sua dottrina con un’immagine eloquente, il corpo: tutti formiamo un solo corpo, ma in molte membra; membra diverse, ma unite a formare un unico organismo. Lo Spirito Santo è il garante dell’unità che tiene unita e ben compaginata la Chiesa come un corpo, in cui la diversità di funzione e ruolo delle varie membra è al servizio del bene dell’organismo intero. La prima lettura ci ricorda che san Pietro nel suo primo annuncio del Vangelo nel giorno di Pentecoste era capito nella propria lingua dai numerosi stranieri convenuti a Gerusalemme. Lo Spirito di Pentecoste è una forza unificatrice che si contrappone vittoriosamente alla logica di divisione della torre di Babele (cf. Gen 11). Lo Spirito è principio di unità nella varietà. Il progetto di Dio è un mondo ricco nella varietà e saldo nella comunione. La varietà dei doni che lo Spirito Santo elargisce generosamente per il bene comune, esige il mutuo riconoscimento della dignità dell’altro e la collaborazione reciproca. Ognuno di noi è parte integrante e insostituibile nel grandioso progetto di Dio sulla storia. Nessuno è superfluo in questa storia, ma ognuno, con la sua particolare vita, con i suoi eroismi e anche con le sue debolezze, è chiamato a mettersi generosamente al servizio degli altri perché il Regno di Dio si compia.
 
Nell’orazione sulle offerte chiediamo al Padre che mandi lo Spirito “perché riveli pienamente ai nostri cuori il mistero di questo sacrificio”. Lo Spirito Santo ci fa percepire il senso profondo della redenzione e, in particolare, la grandezza e il valore del mistero eucaristico.