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martedì 31 ottobre 2017

TUTTI I SANTI – 1 Novembre 2017



Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

Nella festa di tutti i Santi, siamo invitati a contemplare l’assemblea festosa dei nostri fratelli che glorificano in eterno il Padre e, al tempo stesso, a prendere coscienza che anche noi siamo in cammino verso la casa del Padre. Nel nostro pellegrinaggio sulla terra, Dio ci ha dato come “amici e modelli di vita” i santi (prefazio).

Nelle letture bibliche e nelle preghiere della Messa di questa solennità possiamo cogliere alcuni temi che illustrano diversi aspetti della santità. La prima lettura, tratta dall’Apocalisse, ci offre lo spettacolo della Gerusalemme celeste, popolata dagli eletti: si tratta di una “moltitudine immensa… di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” che sta “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello”. Questa moltitudine di eletti è indicata dal testo in “centoquarantaquattromila”, dodici volte dodici moltiplicato per mille, un numero simbolico che esprime pienezza. Il regno di Dio non è a numero chiuso, ma aperto a quanti accettano di purificare i loro peccati nel sangue dell’Agnello. La santità non è impresa per pochi eroi, ma tutti nella Chiesa siamo chiamati ad una vita santa, secondo il detto dell’Apostolo: “questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Tutti i fedeli di qualsiasi stato e grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità, “la pienezza dell’amore” (preghiera dopo la comunione). Ciascuno di noi è chiamato a diventare santo, cioè a realizzare in pieno la sua vocazione cristiana.

Il traguardo della santità è per tutti perché tutti siamo stati oggetto dell’amore di Dio. Infatti la santità è anzitutto un dono che procede dal “Padre, unica fonte di ogni santità” (preghiera dopo la comunione). San Giovanni, nella seconda lettura, esalta il grande amore che ci ha dato il Padre fino a poter essere chiamati figli di Dio. Ecco quindi che il progetto del Padre è che noi siamo simili all’immagine del Figlio suo Gesù Cristo. La vicenda della santità, la cui radice è la filiazione divina, comprende per Giovanni due tappe, essendo progressiva: lo stadio iniziale, realizzato fin dagli inizi della vita cristiana, e il compimento futuro nella perfetta rassomiglianza col Figlio di Dio, quando “saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

E’ santo quindi colui che assomiglia al Figlio di Dio. In questo contesto, le beatitudini proposte dal brano evangelico possono essere lette come il ritratto perfetto di Gesù Cristo. Egli ha vissuto l’ideale delle beatitudini e in lui uomo tutte le promesse di Dio si sono realizzate. Non siamo quindi di fronte a una pura utopia, ma a un programma di vita possibile per ogni discepolo di Gesù, che ha detto: “Imparate da me…” (Mt 11,29). Dietro ad ogni singola beatitudine si può cogliere l’identità di Cristo, uomo nuovo, che noi tutti siamo chiamati a seguire e a imitare.

Un nuovo interesse per la santità riaffiora nel nostro tempo. Ci si chiede come poter esprimere una profezia che parli attraverso l’autenticità della vita. Pur nella diffusa scristianizzazione, c’è una sete ardente di spiritualità. Per noi cristiani la santità è una condizione di esistenza che deriva dal rapporto con Dio, anzi è dono di Dio che ci accoglie come figli nel Figlio.


L’Eucaristia è la prefigurazione e l’anticipo del festoso banchetto del cielo. Essa è quindi anche un viatico cioè una provvista da viaggio. E’ come il pane che fortificò Elia  lungo il sentiero del deserto verso il monte di Dio.

domenica 29 ottobre 2017

LA CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA

 

Markus Tymister, La concelebrazione eucaristica. Storia. Questioni teologiche. Rito (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 182), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2017. 330 pp.

 

Questa monografia del prof. Tymister merita una particolare attenzione anzitutto per la scelta del metodo adoperato. La ricerca è fatta attraverso il contatto diretto con le fonti patristiche, liturgiche, magisteriali e canoniche tenendo conto della mentalità di ciascun epoca. In questo modo si evita di giudicare la storia partendo da acquisizioni teologiche più recenti.

 

L’Autore divide il suo lavoro in quattro capitoli. Dopo una breve esposizione nell’Introduzione del significato del celebrare (pp. 29-41), il primo e più lungo capitolo  è uno studio o percorso storico della celebrazione eucaristica dagli inizi fino al secolo XX (pp. 43-145). Il secondo capitolo studia i riti concelebrati nella Chiesa romana nel secolo XX prima del concilio Vaticano II (pp. 147-178). Il terzo capitolo analizza l’argomento nel concilio Vaticano II, partendo dalla crescente scontentezza nel secolo XX (pp. 179-239). Il quarto capitolo è dedicato all’esame del Rito della concelebrazione eucaristica ripristinata nella Chiesa romana, nella sua prima stesura del 1965 e, poi, così come si trova oggi nella terza edizione del Messale Romano del 2002/2008 (pp. 240-318).

 


Uno studio completo e corretto metodologicamente. 

venerdì 27 ottobre 2017

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 29 Ottobre 2017

 

Es 22,20-26; Sal 17 (18); 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40

Se vogliamo sintetizzare le prescrizioni del brano dell’Esodo, riportate dalla prima lettura,  possiamo dire che Dio si prende cura con molto amore e tenerezza del povero e del debole ed ascolta i loro giusti lamenti. Ecco perché il Signore condanna lo sfruttamento e l’oppressione delle persone deboli e indifese, e ricorda che il valore della persona è sempre superiore alle cose.

Nel brano del vangelo d’oggi alla domanda di un dottore della legge su quali sia il più grande comandamento della legge, Gesù risponde: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore...” Ma aggiunge subito dopo : “Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso”. E conclude affermando che da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti. Gesù parla quindi dell’amore come dimensione globale dell’esistenza, di un amore che abbraccia appunto tutta l’esistenza ed è proiettato in modo inseparabile verso Dio e verso i nostri simili. Questa unità dei due comandamenti non comporta certamente la loro totale identificazione, ma significa che essi sono intrinsecamente associati e interconnessi. Noi siamo tentati di scindere le due cose, dando talvolta il primato a Dio e trascurando il prossimo. Il messaggio evangelico invece ci invita a coniugare i due amori, anzi ad unirli in modo che diventino una medesima esperienza di vita. L’esperienza dell’amore di Dio deve passare attraverso l’amore dell’uomo, e viceversa. Questa sintesi è la vera novità cristiana in rapporto al messaggio dell’Antico Testamento. Per il cristianesimo la legge dell’amore diventa la suprema norma a cui tutto va orientato e da cui tutto si fa dipendere.

Se Dio ama l’uomo, chiunque voglia amare Dio deve collocarsi sulla sua stessa lunghezza d’onda, deve amare anche l’uomo. D’altra parte, come l’uomo è unitario, così le sue scelte di fede e di amore devono essere realtà unitarie. Sulla stessa linea, san Paolo nella seconda lettura ci ricorda che accogliere la parola di Dio significa abbandonare ogni idolatria per diventare seguaci, imitatori di Cristo e testimoni della sua carità.

L’eucaristia a cui partecipiamo è memoriale del sacrificio di Cristo, ed è quindi segno concreto ed espressivo nel segno sacramentale di un Dio che ci ama: “Cristo ci ha amati: per noi ha sacrificato se stesso, offrendosi a Dio in sacrificio di soave profumo” (antifona alla comunione - Ef 5,2).



mercoledì 25 ottobre 2017

NON SOLO UNA “CORRECTIO PATERNALIS” DEL PAPA AL CARD. SARAH



La Lettera che papa Francesco ha inviato al Card. Sarah il 15 di questo mese (pubblicata dalla Nuova Bussola Quotidiana il giorno 22) è molto di più che una “correctio paternalis” del Pontefice al cardinale Prefetto del culto divino, noto ormai per le sue posizioni contrastanti con quelle del Papa in diverse questioni che riguardano la liturgia. Questa lettera rappresenta una autorevole interpretazione del recente motu proprio Magnum Principium  sul tema delle traduzioni dei libri liturgici alle diverse lingue. Ecco il testo della Lettera.


Città del Vaticano, 15 ottobre 2017

A Sua Eminenza Reverendissima
il signor Card. Robert SARAH
Prefetto della Congregazione per il Culto Divino
e la Disciplina dei  Sacramenti
Città del Vaticano

Eminenza,

ho ricevuto la sua lettera del 30 settembre u.s., con la quale Ella ha voluto benevolmente esprimermi la sua gratitudine per la pubblicazione del Motu Proprio Magnum Principium e trasmettermi una elaborata nota, “Commentaire”, sullo stesso finalizzata a una migliore comprensione del testo.
Nel ringraziarla sentitamente per l’impegno e il contributo, mi permetto di esprimere semplicemente, e spero chiaramente, alcune osservazioni sulla sopramenzionata nota che ritengo importanti soprattutto per l’applicazione e la giusta comprensione del Motu Proprio e per evitare qualsiasi equivoco.

Innanzitutto occorre evidenziare l’importanza della netta differenza che il nuovo MP stabilisce tra recognitio e confirmatio, ben sancita nei §§ 2 e 3 del can. 838, per abrogare la prassi, adottata dal Dicastero a seguito del Liturgia authenticam (LA) e che il nuovo Motu Proprio ha voluto modificare. Non si può dire pertanto che recognitio e confirmatio sono “strettamente sinonimi (o) sono intercambiabili” oppure “sono intercambiabili a livello di responsabilità della Santa Sede”.

In realtà il nuovo can. 838, attraverso la distinzione tra recognitio e confirmatio, asserisce la diversa responsabilità della Sede Apostolica nell’esercizio di queste due azioni, nonché quella delle Conferenze Episcopali. Il Magnum Principium non sostiene più che le traduzioni devono essere conformi in tutti i punti alle norme del Liturgia authenticam, così come veniva effettuato nel passato. Per questo i singoli numeri di LA vanno attentamente ri-compresi, inclusi i nn. 79-84, al fine di distinguere ciò che è chiesto dal codice per la traduzione e ciò che è richiesto per i legittimi adattamenti. Risulta quindi chiaro che alcuni numeri di LA sono stati abrogati o sono decaduti nei termini in cui sono stati ri-formulati dal nuovo canone del MP (ad es. il n. 76 e anche il n. 80).

Sulla responsabilità delle Conferenze Episcopali di tradurre “fideliter”, occorre precisare che il giudizio circa la fedeltà al latino e le eventuali correzioni necessarie, era compito del Dicastero, mentre ora la norma concede alle Conferenze Episcopali la facoltà di giudicare la bontà e la coerenza dell’uno e dell’altro termine nelle traduzione dall’originale, se pure in dialogo con la Santa Sede. La confirmatio non suppone più dunque un esame dettagliato parola per parola, eccetto nei casi evidenti che possono essere fatti presenti ai Vescovi per una loro ulteriore riflessione. Ciò vale in particolare per le formule rilevanti, come per le Preghiere Eucaristiche e in particolare le formule sacramentali approvate dal Santo Padre. La confirmatio tiene inoltre conto dell’integrità del libro, ossia verifica che tutte le parti che compongono l’edizione tipica siano state tradotte[1].

Qui si può aggiungere che, alla luce del MP, il “fideliter” del § 3 del canone, implica una triplice fedeltà: al testo originale in primis; alla particolare lingua in cui viene tradotto e infine alla comprensibilità del testo da parte dei destinatari (cfr. Institutio Generalis Missalis Romani nn. 391-392).

In questo senso la recognitio indica soltanto la verifica e la salvaguardia della conformità al diritto e alla comunione della Chiesa. Il processo di tradurre i testi liturgici rilevanti (ed es. formule sacramentali, il Credo, il Pater Noster) in una lingua - dalla quale vengono considerati traduzioni autentiche -, non dovrebbe portare ad uno spirito di “imposizione” alle Conferenze Episcopali di una data traduzione fatta dal Dicastero, poiché ciò lederebbe il diritto dei Vescovi sancito nel canone e già prima dal SC 36 § 4. Del resto si tenga presente l’analogia con il can. 825 § 1 circa la versione della Sacra Scrittura che non necessita di confirmatio da parte della Sede Apostolica.

Risulta inesatto attribuire alla confirmatio la finalità della recognitio (ossia “verificare e salvaguardare la conformità al diritto”). Certo la confirmatio non è un atto meramente formale, ma necessario alla edizione del libro liturgico “tradotto”: viene concessa dopo che la versione è stata sottoposta alla Sede Apostolica per la ratifica dell’approvazione dei Vescovi, in spirito di dialogo e di aiuto a riflettere se e quando fosse necessario, rispettandone i diritti e i doveri, considerando la legalità del processo seguito e le sue modalità[2].

Infine, Eminenza, ribadisco il mio fraterno ringraziamento per il suo impegno e constatando che la nota “Commentaire” è stata pubblicata su alcuni siti web, ed erroneamente attribuita alla sua persona, Le chiedo cortesemente di provvedere alla divulgazione di questa mia risposta sugli stessi siti nonché l’invio della stessa a tutte le Conferenze Episcopali, ai Membri e ai Consultori di codesto Dicastero.

Fraternamente

Francesco



[1] Magnum Principium: “Fine delle traduzioni dei testi liturgici e dei testi biblici, per la liturgia della Parola, è annunciare ai fedeli la parola di salvezza in obbedienza alla fede ed esprimere la preghiera della Chiesa al Signore. A tale scopo bisogna fedelmente comunicare ad un determinato popolo, tramite la sua propria lingua, ciò che la Chiesa ha inteso comunicare ad un altro per mezzo della lingua latina. Sebbene la fedeltà non sempre possa essere giudicata da parole singole, ma debba esserlo nel contesto di tutto l’atto della comunicazione e secondo il proprio genere letterario, tuttavia alcuni termini peculiari vanno considerati anche nel contesto dell’integra fede cattolica, poiché ogni traduzione dei testi liturgici deve essere congruente con la sana dottrina”. 

[2] Magnum Principium: “Si deve senz’altro prestare attenzione all’utilità e al bene dei fedeli, né bisogna dimenticare il diritto e l’onere delle Conferenze Episcopali che, insieme con le Conferenze Episcopali di regioni aventi la medesima lingua e con la Sede Apostolica, devono far sì e stabilire che, salvaguardata l’indole di ciascuna lingua, sia reso pienamente e fedelmente il senso del testo originale e che i libri liturgici tradotti, anche dopo gli adattamenti, sempre rifulgano per l’unità del Rito Romano”.
 


domenica 22 ottobre 2017

LA MENTE CONCORDI CON LA VOCE



Questo principio della Regola di san Benedetto (19,7) è decisivo nella vita di preghiera. Noi avremmo la tendenza, soprattutto oggi per la cultura dominante, a capovolgerlo, a pensare che la voce deve concordare con la mente e con il cuore. Invece questo principio va colto in tutta la sua singolarità: è il cuore, e la mente che deve concordare con la voce, non il contrario. Questo è carico di significato non solo per l’ufficio, ma oserei dire per tutta la liturgia cristiana.

Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che quando Benedetto ha scritto questa Regola nessuno leggeva come noi oggi leggiamo. Noi oggi leggiamo in silenzio perché gli occhi sono capaci di percorrere il testo scritto e di arrivare a deporlo nella nostra intelligenza, nel nostro cuore. Ma nel primo millennio non si è dato mai lettura che non fosse vocale, una lettura cioè in cui si udiva il testo pronunciato leggendo. Di conseguenza quando si dice: Mens concordet voci, significa che la mente deve concordare con la voce che legge il Salterio o la Scrittura. Così si dà un primato alla Scrittura e dunque alla parola di Dio, non a quello che noi sentiamo.

Da qui discende qualcosa di molto importante: chi prega, chi canta, deve avere una preghiera, un canto pienamente intelligibile, comprensibile. Non possono prevalere il canto e i suoi virtuosismi sullo “sta scritto”. Il primato è della parola. E questo significa che non si potrà mai avere una liturgia cristiana con delle parole che non siano intelligibili dai fedeli. Non è possibile pregare nella liturgia, parteciparvi se non si comprende ciò che viene detto. Mens concordet voci significa anche questo: è uno sforzo di obbedienza. Non a caso dom Jean-Baptiste Chautard, nel commentare questo versetto, diceva: “E’ una questione di obbedienza: la mente, il cuore deve essere obbediente alla voce, alla parola, allo ‘sta scritto’”.


Fonte: Enzo Bianchi, Al termine del giorno. Parole per illuminare il viaggio interiore, Qiqajon, Comunità di Bose 2017, 121-122.   

sabato 21 ottobre 2017

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 22 Ottobre 2017


Is 45,1.4-6; Sal 95 (96); 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21

Dio ha scelto l’imperatore persiano Ciro il Grande per far ritornare gli Ebrei in patria (cf. prima lettura) ridando in questo modo libertà e dignità al popolo di Dio. Il re persiano Ciro, che era un despota e non conosceva il vero Dio, diventa in questo modo strumento della misericordia del Signore. Il profeta intende dimostrare che Dio è presente e agisce nella storia, facendo notare come operi in e per mezzo di persone che vivono al di fuori del suo popolo. Ciò ci insegna che Dio è alla guida della storia e sceglie con libertà le vie e i mezzi più opportuni per realizzare il suo progetto. In questo modo il profeta fa una interpretazione della storia alla luce della fede.

La fede però, pur avendo il diritto di contemplare l’intervento di Dio nella storia e di dare la propria valutazione dei fatti, non può per questo negare o sottovalutare la responsabilità e i compiti che spettano all’uomo. Nel vangelo d’oggi ce lo ricorda Gesù con la sua famosa affermazione: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, l’unico pronunciamento ‘politico’ esplicito di Gesù. Poche sentenze del Vangelo hanno avuto la fortuna di questa che ci viene oggi ricordata. Non sempre però è stata capita in modo giusto. Gesù, nella risposta al tranello che gli tendono i farisei e gli erodiani, non si schiera né con la reazione né con la rivoluzione. Un “sì” o un “no” sulla legittimità di pagare il tributo a Cesare poteva essere un valido pretesto per screditare Gesù presso l’autorità politica o presso quella religiosa su un tema molto dibattuto. Nella sua risposta, Gesù riconosce il potere romano come dominazione di fatto, anche se non entra in merito alla sua legittimità o meno. La risposta di Gesù suppone implicitamente che quando un cittadino paga le tasse non per questo sottrae qualcosa a Dio; anzi, proprio operando in questo modo egli obbedisce a Dio. Infatti, della volontà divina fa parte anche l’ordine economico, sociale, politico che è chiamato a governare secondo giustizia i rapporti tra gli uomini. Insomma Dio e la politica si collocano su livelli diversi di esperienza, ma non si tratta di livelli contrapposti. Ciò non toglie la possibilità di conflitti che l’esperienza storica mostrerà ben frequenti. E’ compito di ogni credente discernere se un tipo di obbedienza richiestogli si collochi coerentemente entro la sua obbedienza a Dio oppure no. L’uomo non è un “animale” meramente politico, così come non è un “animale” meramente religioso. Le due dimensioni devono stare insieme per raggiungere i loro fini propri a beneficio dell’uomo, che è un essere indivisibile.

In ogni caso, non si può relegare Dio entro una sfera puramente interiore, tentazione frequente nei nostri giorni. Il cristiano deve far emergere nella sua vita personale e nei suoi rapporti con gli altri i valori in cui crede: la fede operosa, la carità matura e la speranza costante in Gesù Cristo. Così insegna san Paolo ai cristiani di Tessalonica (cf. seconda lettura). Come preghiamo nell’orazione colletta della Messa, dobbiamo sempre e in ogni circostanza servire il Signore “con lealtà e purezza di spirito”.


martedì 17 ottobre 2017

Bisogna interpretare il diritto canonico alla luce del Concilio Vaticano II.

UNIVERSITA’ DI PISA
PIERLUIGI CONSORTI


Il Cardinale Robert Sarah ha diffuso una sua personale interpretazione del Motu proprio Magnum Principium che ha recentemente modificato il canone 838 del codice di diritto canonico.  La riforma si è resa necessaria per chiarire quali debbano essere i termini della relazione fra la competenza legislativa propria assegnata in materia liturgica alle Conferenze episcopali e la competenza esecutiva della Sede apostolica alla luce dei principi conciliari. Il canone si esprimeva per la verità in modo già sufficientemente chiaro, ma la prassi amministrativa aveva generato molte difficoltà applicative, che la riforma ha voluto definitivamente dissipare.
Vale la pena ricordare che nella Chiesa la forza normativa dipende dall’autorità del soggetto che emana una legge e che la potestà legislativa è connessa al munus episcopale. Ciascun vescovo diocesano gode della pienezza della potestà normativa verso il popolo che gli è stato affidato. Tuttavia il Concilio ha spiegato che non si tratta di un potere personale quanto di un effetto della comunione che caratterizza il munus di ciascun vescovo in quanto membro del collegio episcopale. In questo modo ogni Chiesa particolare è parte dell’unica Chiesa universale sicché la potestà normativa propria di ciascun vescovo diocesano si raccorda con quella di tutti gli altri vescovi in comunione con quello di Roma. Tale vincolo si realizza anche attraverso diverse forme di collegamento tra vescovi diocesani. Il Concilio in questo senso ha valorizzato le Conferenze episcopali nazionali rispetto ad altri soggetti aggregativi risalenti nel tempo, come le regioni ecclesiastiche e i concili locali.
Le funzioni attribuite alle Conferenze episcopali prevedono una competenza legislativa speciale limitata a casi ben determinati.  Il can. 838 è uno di questi, e costituisce un esempio della dialettica normativa che, per semplicità, possiamo definire equilibrata fra centro e periferia. Nella versione originaria – che riprende il numero 22 di Sacrosanctum concilium – esso si apre con un paragrafo dichiarativo del principio generale che attribuisce solo alla Chiesa la potestà di definire le regole liturgiche (in sostanza esclude ingerenze di soggetti estranei) riconoscendo una competenza propria sia alla Sede apostolica sia ai Vescovi diocesani. Il secondo paragrafo precisa la competenza della Sede apostolica nel senso di ordinare la liturgia della Chiesa universale, pubblicando i libri liturgici, rivedendo (lett.: recognoscere) le loro versioni nelle lingue volgari e vigilando “ovunque” sulla fedele osservanza delle norme liturgiche. Il terzo paragrafo attribuisce alle Conferenze episcopali la competenza di predisporre le versioni dei libri liturgici nelle lingue volgari, anche “adattandole convenientemente” nei limiti previsti dagli stessi libri liturgici, per poi pubblicarli “praevia recognitione Sanctae Sedis”. Il quarto e ultimo paragrafo chiude il cerchio rammentando che al Vescovo diocesano spetta la competenza di dare norme liturgiche particolari che tutti i fedeli della sua diocesi sono tenuti ad osservare.
In sostanza il canone ripartisce con precisione le competenze legislative in materia liturgica partendo da quella propria dei singoli vescovi per le loro diocesi e differenziando quella della Sede apostolica (paragrafo secondo) da quella delle Conferenze episcopali (paragrafo terzo). Nella prassi tuttavia la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha operato attribuendosi un compito censorio connesso sia alla verifica della fedeltà delle traduzioni nelle lingue volgari rispetto alla Editio typica, sia alla pubblicazione dei libri liturgici particolari sulla base di un’errata interpretazione dei termini recognoscere e recognitio, grossolanamente tradotti in italiano con “autorizzare”.  L’errata interpretazione della recognitio come autorizzazione è stata messa in luce da un’apposita Nota esplicativa del 2006 del Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi , che invita a rendere recognitio con revisione. La stessa Nota rammenta poi la sussistenza di una differenza giuridica fra recognitioapprobatio e confirmatio, nessuna delle quali equivale ad autorizzazione. Anche perché nella logica collegiale sarebbe errato suppore una subordinazione gerarchica fra organi chiamati a svolgere funzioni bensì collegate, ma in ogni caso diverse, rispetto alle quali nessuno è superiore ad un altro. La Sede apostolica quindi revisiona le versioni svolte dalle Conferenze episcopali, ma non le autorizza né approva né conferma. Anche la pubblicazione dei libri liturgici particolari era soggetta ad una revisione della Sede apostolica, che sulla base di Sacrosanctum concilium doveva intendersi in senso meramente tecnico e sussidiario, avrebbe altrimenti invaso una potestà normativa attribuita agli organismi territoriali.
La Congregazione interpretava però la sua funzione in senso diverso: nell’Istruzione Liturgiam authenticam (2001) esaltava la sua funzione di governo della liturgia intendendo la recognitio quale vera e propria approbatio, in assenza della quale supponeva gli atti assunti dalle Conferenze episcopali del tutto privi di forza normativa. Per cambiare questa interpretazione il legislatore universale è intervenuto modificando i paragrafi 2 e 3 del can. 838. Il primo di questi attribuisce adesso alla Sede apostolica la funzione di recognoscere (revisionare) gli adattamenti dei libri liturgici già approvati a norma del diritto dalle Conferenze episcopali e l’altro dispone che le Conferenze episcopali preparino e approvino i libri liturgici da utilizzare nelle regioni di loro pertinenza, accomodandoli convenientemente e fedelmente (nuovo avverbio), nonché pubblicandoli “post confirmationem Apostolicae Sedis”. La lettera di queste modifiche avrebbe dovuto tagliare la testa a qualsiasi ulteriore perplessità esecutiva. Il legislatore universale ha ribadito il  magnum principiumconciliare che negli anni si era perso e, a scanso di equivoci, la Santa Sede ha pubblicato una Nota del Segretario della Congregazione per il culto e la disciplina dei sacramenti che fra le altre cose precisa come la sostituzione di confirmatio in luogo di recognitio sia stata voluta proprio per lasciare alla Sede apostolica un intervento meramente confermativo della volontà espressa dalle Conferenze episcopali, unici soggetti competenti in materia di traduzione e accomodamento dei testi liturgici. A tale riguardo soccorre anche Sacrosanctum concilium (numero 36) che, riguardo alla lingua liturgica, si esprime nei termini di conferma da parte della Sede apostolica delle decisioni assunte dai vescovi su base territoriale e di approvazione delle traduzioni da parte delle medesime autorità territoriali (le Conferenze episcopali nazionali).La differenza tra confirmatio e recognitioriposa peraltro su solide basi canonistiche ed appare evidente che adesso è richiesta una mera confirmatio solo per pubblicare i libri liturgici già preparati e approvati dalle Conferenze episcopali, perciò pienamente dotati di forza normativa. La riforma del canone 838 va quindi intesa come la precisazione canonistica di un più largo disegno di restituzione della liturgia alla sua funzione comunicativa del messaggio di salvezza, che va oltre la “guerra delle traduzioni”.
Una volta si sarebbe detto Roma locuta, causa finita, ma i tempi sono cambiati; così il cardinale Sarah, Prefetto in carica della Congregazione chiamata per prima a cambiare passo, ha creduto opportuno manifestare il suo umile (benché cardinalizio) parere e segnalare la sua personale opposizione. Egli ritiene infatti che la riforma non abbia cambiato nulla e tenta una disperata difesa dell’equivalenza canonistica fra recognitio e confirmatio. A suo parere la riforma ha anzi rafforzato il ruolo della Congregazione, che non solo deve “riconoscere gli adattamenti” ma “confermare la fedeltà delle traduzioni”. Nel primo caso quindi il ruolo censorio resta invariato, e nel secondo addirittura accresciuto.
Questa interpretazione formalistica tradisce lo spirito della riforma e si oppone apertamente alla mente del legislatore. La resistenza cardinalizia esprime una visione centralistica, curiale e anticonciliare della Chiesa esplicitamente disegnata nella parte conclusiva del suo scritto, ove paragona paternalisticamente il rapporto fra la Sede apostolica e le Conferenze episcopali “alla responsabilità del professore nei confronti dello studente che prepara una tesi o, più semplicemente, dei genitori nei confronti dei compiti a casa dei figli”.  Questa visione piccina della Chiesa consegna l’immagine di un “prefetto piccolo”, adatto forse a svolgere compiti esecutivi, ma certo lontano dall’incarnare la funzione di servizio alla comunione episcopale che dovrebbe caratterizzarne il ruolo.
Questa circostanza induce ancora una volta a ragionare sull’ignoranza del diritto canonico e sulla sua strumentalizzazione come mezzo di conservazione del potere. Un arnese buono per mantenere il passato e condizionare il futuro, utile persino per resistere allo Spirito che ancora soffia nella Chiesa. Non abbiamo bisogno di battaglie di retroguardia. Non ci servono cardinali resistenti: abbiamo bisogno di un diritto canonico periferico, che parli le lingue degli uomini e delle donne per aiutare a vivere il Vangelo; abbiamo bisogno di una liturgia che esprima il mistero di Cristo nella vita della Chiesa; abbiamo bisogno di adattare le istituzioni alle esigenze del nostro tempo per favorire l’unione dei credenti in Cristo. Abbiamo bisogno di conversione.


domenica 15 ottobre 2017

UNA PERLA DI SALUTARE DISCONTINUITÀ DEL VATICANO II



“La chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che nessuno di quelli che sono fuori della chiesa cattolica, ma anche i giudei o gli eretici e gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, ‘preparato per il diavolo e per i suoi angeli’ (Mt 25,41), se prima della morte non saranno stati ad essa riuniti…” (Concilio di Firenze, Bolla “Cantate Domino”, 4 febbraio 1442).

“Dio, come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cf. 1Tm 2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna” (Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen Gentium 16 – 21.11.1964).


Una perla, tra molte altre, di salutare discontinuità del Vaticano II. Noto che la Chiesa del secolo XV pregava in coerenza con la dottrina espressa nel concilio fiorentino. Invece la Chiesa del secolo XX/XXI prega in coerenza con la dottrina espressa nel concilio Vaticano II.

venerdì 13 ottobre 2017

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 15 Ottobre 2017

 

Is 25,6-10°; Sal 22 (23); Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

Con questa domenica, mentre l’anno liturgico volge alla fine, i testi della liturgia cominciano a mettere l’accento sui temi delle ultime realtà. Ciò viene fatto oggi adoperando l’immagine biblica ben conosciuta del “banchetto”. Il banchetto è una concreta espressione di gioiosa convivialità. I profeti, soprattutto Isaia, paragonano volentieri la felicità degli eletti a quella dei convitati chiamati da Dio a partecipare a un sontuoso banchetto. La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, servendosi dell’immagine del banchetto preparato dal Signore “per tutti i popoli” vuole darci l’idea della salvezza universale. Grazie anche alla dura esperienza del deserto, Israele ha imparato a interpretare la storia come continua tensione verso un futuro di salvezza. Ciò gli dà la possibilità di vedere la provvisorietà e l’incompiutezza del presente, di sentirsi sempre in cammino verso la stabilizzazione della salvezza universale, e di vivere quindi il presente nella gioiosa speranza del compimento delle promesse divine.

Se leggiamo il brano evangelico di Matteo alla luce del testo d’Isaia, il banchetto nuziale di cui parla Gesù nella parabola non va inteso come un semplice momento di festa, ma come il segno del compiersi del dono messianico di Dio, il compimento delle sue promesse che annunciano vita e luce e consolazione. Gesù, riprendendo l’immagine e la speranza del profeta, avvicina i tempi e vede già nell’oggi il compimento delle promesse. Il regno di Dio è giunto nella persona di Gesù, attorno alla quale avviene la convocazione universale. Tutti siamo invitati alla festa di nozze del figlio del re. Le nozze sono quelle di Gesù con l’umanità nel mistero della sua Incarnazione.  

La storia cammina verso una conclusione positiva: il dono della salvezza che Dio offre a tutti senza distinzione. Siamo già ora partecipi di questo dono, ma solo in parte. Nell’accoglienza o meno dei suoi valori decidiamo già oggi della nostra sorte, del nostro futuro. La salvezza è decisa dalle scelte di ogni istante. Siamo in cammino, pellegrini nel mondo, protesi verso le realtà definitive, che conosceranno l’eliminazione di ogni sofferenza e la comunione definitiva con Dio. Nelle fatiche di questo cammino lungo e difficile ci guida il Signore Gesù. Perciò anche noi possiamo ripetere con san Paolo (cf. seconda lettura): “Tutto posso in colui che mi dà la forza”.


La celebrazione eucaristica è il segno sacramentale del banchetto eterno. In essa Cristo si dona con il suo corpo e il suo sangue e apre a noi il cammino verso il Padre (cf. Preghiera eucaristica V/C).

domenica 8 ottobre 2017

LE LEZIONI DELLA STORIA E LA RIFORMA LITURGICA



La certezza nella presenza di Cristo nell’eucaristia è stata sempre uno dei punti fondamentali della fede cristiana. Tuttavia la storia ci insegna che nel corso dei secoli sono varie le accentuazioni e le forme espressive di questa verità. Insomma se la verità di fede è una, le teologie che la esprimono  sono varie.

Nel secolo IX si diffonde una nuova concezione dell’eucaristia in certa misura differente da quella dei Padri: Cristo viene considerato presente nell’eucaristia con la medesima materialità corporea e i cinque sensi propri della sua esistenza storica terrena, anche se ridotto a dimensioni minime e velato dalle specie del pane e del vino. Si passa quindi dal simbolo reale dei Padri greci al realismo cosificante dei popoli germanici, la cui mentalità progressivamente si impone come elemento dominante nella cultura occidentale.

Ecco quindi che la mentalità dominante, o per lo meno molto rilevante, resta in alcune fasce l’idea cosificante, che alimenta certe manifestazioni devozionali dal tempo carolingio in poi.

In questo nuovo clima si capisce forse meglio perché, ad esempio, si adotta in questo periodo il pane azimo, che sostituisce il pane offerto dai fedeli, si abbandona la comunione al sangue per lo scrupolo di versamenti, si introducono le grandi elevazioni del pane e del vino appena consacrati, la comunione in bocca, la congiunzione delle dita che hanno toccato l’ostia, diverse particolari abluzioni, l’accurata purificazione dei vasi sacri, la tovaglia davanti ai comunicandi, alcune genuflessioni, ecc.

Notiamo che la presenza di Cristo nell’eucaristia non è una presenza di tipo fisico-naturale, ma di tipo sacramentale. E quindi il sacrificio di Gesù Cristo non è presente nell’eucaristia secondo le modalità proprie del Calvario, bensì in forma sacramentale. Questa consapevolezza è alla base della riforma della Messa operata dopo il Vaticano II.



Per approfondire, consiglio: Enrico Mazza, Continuità e discontinuità. Concezioni medievali dell’Eucaristia a confronto con la tradizione dei Padri, Edizioni Liturgiche, Roma 2001; Vincenzo Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, Edizioni Liturgiche, Roma 2003; Pierpaolo Caspani, Pane vivo spezzato per il mondo. Linee di teologia eucaristica, Cittadella, Assisi 2011.

sabato 7 ottobre 2017

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 8 Ottobre 2017

Is 5,1-7; Sal 79 (80); Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

Al centro dei testi biblici di questa domenica ritorna l’immagine della vigna, molto usata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Il Sal 79, salmo di lamentazione, è una specie di autobiografia di Israele nel momento in cui sente venir meno la luce del volto di Dio, fonte di luce e di speranza. Israele vuole ritornare ad essere la vigna di Dio, curata con premura dal grande vignaiolo. Ora invece, priva di difesa, è territorio di libera caccia e di preda. Alla fine del salmo, la supplica diventa pressante e piena di speranza: “... Signore, Dio degli eserciti, fa che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”. Anche noi, nonostante tutte le nostre infedeltà, continuiamo ad essere quella vigna per la quale Dio ha compiuto meraviglie.

L’immagine della vigna, sia nella prima lettura che nella parabola del vangelo, si riferisce al popolo d’Israele ed esprime un giudizio di sofferenza su un popolo molto amato, ma che ha deluso e tradito l’amore del proprio Dio. Il profeta Isaia, vissuto all’epoca nella quale, probabilmente, fu composto il salmo responsoriale, pare dare una risposta agli interrogativi posti dal salmista a Dio sulla sua vigna d’Israele. Il testo profetico è un rimprovero a un popolo che si accontenta di una religiosità superficiale, ma non preoccupato di andare oltre le pratiche del tempio per portare frutti nel contesto di una vita sociale segnata da maggior senso della giustizia e moralità nelle relazioni umane, in conformità al patto di alleanza che lega Dio al suo popolo. Tra Dio e il suo popolo non c’è solo un rapporto di possesso (proprietario e proprietà), ma anche e soprattutto un rapporto di amore; la vigna assume i caratteri della persona umana.

L’oscura minaccia, presente nell’allegoria della vigna, trova il suo definitivo riscontro al tempo di Gesù e si concretizza come passaggio della vigna, e cioè del regno di Dio, alle nazioni pagane. Il fallimento del popolo dell’antica alleanza non arresta il piano di Dio: esso continua presso tutti coloro che sono disponibili alla fede, pronti ad accogliere e vivere la parola di Dio. La parabola della vigna contiene un severo ammonimento anche per noi cristiani. Un motivo ricorrente nel vangelo di san Matteo è quello di “portare frutti” (Mt 3,8.10; 7,16-20; 12,33; ecc.). L’appartenenza al Regno non è un privilegio formale, ma un dovere, che impegna a professare con le opere la fede nel Signore Gesù. Ciò che abbiamo appartiene a Dio e ci è affidato in gestione; ma Dio appare talvolta lontano, tanto lontano che ci sembra di poter decidere della nostra vita senza fare i conti con lui. Riferendosi ai brani della Scrittura proclamati oggi (Is 5 e Mt 21), il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “La Chiesa è stata piantata dal celeste Agricoltore come vigna scelta. Cristo è la vera Vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa rimaniamo in lui e senza di lui nulla possiamo fare” (n. 755).


Da quanto detto si deduce che se la Chiesa medita questi brani della Scrittura non è tanto per accusare l’antico popolo d’Israele, quanto per prendere coscienza della propria responsabilità e per invitare tutti ad aprire il proprio cuore al progetto di Dio sulla storia manifestatosi in Gesù Cristo. Nella seconda lettura, anche oggi come nella domenica scorsa, siamo invitati da san Paolo, che non è solo un maestro di dottrina ma un testimone di ciò che insegna, alla coerenza tra il pensare e l’agire e a non dimenticare il suo esempio: “Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica”. Facendo in questo modo, aggiunge l’Apostolo, “il Dio della pace sarà con voi”.

domenica 1 ottobre 2017

LA SANTA IGNORANZA



Olivier Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2017. 317 pp.

L’autore di questo interessante saggio insegna all’Istituto universitario europeo di Firenze. Offro alcune delle riflessioni finali del suo volume.

“Una religiosità comune si sviluppa fra fedeli di diverse religioni, fatta di individualismo e, allo stesso tempo, di comunitarismo identitario incentrato sulla religione e non più sull’etnia o la cultura […]

Fondamentalmente, i fenomeni che abbiamo considerato rimandano non necessariamente a un’uniformazione delle teologie quanto a un privilegiamento dell’esperienza religiosa a scapito del sapere religioso […]

Le autorità religiose reagiscono contro ciò che percepiscono come un rischio di sincretismo incoraggiando il ritorno al latino nel caso del cattolici romani o l’ostentazione dei segni distintivi come nel caso dei musulmani, condannando l’ecumenismo troppo spinto, rifiutando il relativismo religioso, riaffermando che esiste solo una verità. In forme diverse, le grandi religioni – ma si potrebbe dire anche i nuovi credenti, in quanto il movimento proviene dalla base – si sforzano di presidiare le frontiere. I carismatici cattolico-romani non vedono affatto di buon occhio gli ashram cristiani.

Ci troviamo forse di fronte a una tendenza alla ‘riculturazione’? Il ritorno al latino nella Chiesa cattolico-romana, in realtà, appare più prossimo a una recita di mantra dalla quale ci si attendono effetti ‘magici’ che a un ritorno alla cultura umanistica classica. Ad attirare i nuovi credenti, infatti, è il carattere misterioso del latino e non la sua caratteristica di vettore della cultura classica: non leggeranno mai Virgilio o Cicerone. Analogamente per i Tabligh imparare a memoria il Corano non significa apprendere l’arabo per leggere altri libri. Diversamente, al Corano viene attribuito un effetto ‘magico’; imparato a memoria trasforma l’anima del fedele che lo incorpora. Ci si trova di fronte più a una dimensione eucaristica che all’apprendimento di un sapere. La santità non ha sempre bisogno del sapere [..]

L’ignoranza ha un grande futuro davanti a sé”



(pp. 302, 305-307, 313)